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L'acqua alta ovvero le nozze in casa dell'avaro/Atto Primo

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Qualità del testo: sto testo el xe conpleto, ma el gà ancora da vegner rileto.

 Edission original:   

Francesco GrittiL'acqua alta ovvero le nozze in casa dell'avaro, Commedia veneziana in versi sciolti, Venezia, Basaglia, 1769

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Indice:L'acqua alta.djvu

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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Portego con pergolo in casa de Sior Nadal.


Sior Nadal in bareta da notte, codegugna, mule vegnindo avanti a taston.

Nad. GNancora se ghe vede! Xe sonae
     Che sarà un quarto d'ora le quatordese!
     Mo che note! No le finisse mai!
     Benedeto l'Istà! Presto fa dì!
     Apena se xe in leto, el Galo canta
     E fora el Sol: e no ghe xe bisogno
     De consumar tant'ogio, e tanto sceo.
     L'Inverno no me posso mantegnir!
     I Servitori magna che i devora:
     I me brusa la casa, e tutto el zorno
     Lustrissimo, coss'e? No ghè più fassi.
     Sior Paron, coss'e stà? Cossa ve casca?
     No ghè candele, no ghe più farina
     caricando.
     No ghè, no ghè, no ghè, no ghè più gnente.
     In tun momenta me sparisse tuto
     E bisogna comprar tuto da capo.
     Ghe vorave la borsa del Gran Turco
     E no d'un poveromo come mi!
     Oh! se no sparagnasse! cossa importa!
     Sparagno per i altri! I me torave

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     Fin la camisa che go adosso. Basta:
     Spero che presto la sarà fenia,
     E se averò do soldi, i sarà mii!
     Avaro! lassa pur che i diga avaro
     Ma no i me poderà mai dir minchion.
     A buon conto mia fia drento de ancuo
     S'à da sposar co' Sior Zaneto, e 'l mejo
     Xe ch'el la tol senza un bezzo de dote.
     Ma sto aver da far mi tute le spese
     Dele Nozze: sto aver da invidar tanta
     Zente che dopo che i ha magnà le coste
     Drio le spale i ve burla; l'è una cossa.....
     sospirando.
     Basta l'à da finir! Ma da mia posta
     Mi parlo come i mati! Oe Giulio! Pasqua!
     chiamando forte.
     Figureve! Quel Fiorentin del diavolo
     Avezzo a magnar poco al so Paese,
     E che qua trova el late de galina;
     El dormirave quatro dì de seguito.
     Pasqua con lu xe za de lega, e se
     Li lasso far, un zorno o l'altro, certo
     I me cazza su 'n ponte. Oe, Giulio, digo.
     come sopra.
Giu. Illustrisimo m'alzo in un momento.
     di dentro.
Nad. Ancora in leto, Sior?
Giu. Non si ci vede.come sopra.
Nad. Come, se xe deboto mezzodì?
Giu. E' dunque ora di pranzo? Vengo, vengo.
     come sopra.
Nad. Và al diavolo, Magnon. Apen'averti

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     I occhj, i voria subito magnar!
     E cussì, Sior, se destrighemio? adirato.
Giu. Vengo. come sopra.
Nad. Mo i gran baroni! Sempre i magnarave.
     Tanti nemici quanti Servitori.
     Sti Fiorentini pò, i gà gargati
     Gargatazzi teribili, che un caro
     I mandarave zo con quatro bò.
     Basta dir Forastieri! Za l'ho dito,
     No ghe ne vogio: e se non fusse... basta:
     No ghe dago salario! Ma stassera
     C'ò consegnà Anzoleta a sò Mario
     Xe fenìa la cucagna. Figurarse!




SCENA II.
Giulio sortendo da una porta laterale
e detto.

Giu. (OH se non fosse la Filippa, e questa
     Scala che a Lei mi guida di soppiatto,
     Sarei ben pazzo da fune, s'io stessi
     A intisichire con questo avaraccio!) da se.
     Illustrissimo, sono a suoi comandi.
Nad. Ve par, Sior pezzo de...
Giu. Eccomi lesto. interrompendolo.
     Vuol ella il cioccolatte, od il caffè?
Nad. Ve par mo, Sior, ve torno a dir, ve par...
Giu. È inutile che a me paja o non paja.
     Quand'Ella crede averne di bisogno

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     Io volo ad ubbidirla. Il mio dovere
     Lo so, Signor; Io non ho a farle il medico.
Nad. Maledeto costù! el me fa una rabbia!
da se.
     No vogio chiocolata ne caffè.
     Voleva dirve, se ve par che questa
     La vada ben, de veder el Paron
     Levarse un'ora avanti el Servitor?
Giu. Parmi che no. Piuttosto io crederei
     Che dovrebbe il Padrone a suo bell'agio
     Alzarsi anche quattr'ore dopo il Servo.
     In quanto a me, s'io fossi, per esempio,
     Il Padrone, vorrei poltrire a letto
     Tutta la notte e mezza la giornata,
     E s'alzi pur chi vuol di buon mattino.
Nad. Ma i Servitori lasseressierrata corrige originale, sior
     Che i stasse in letto fina che ghe par
     E che quando se sù, trovessi ancora
     tutto quando da sar?
Giu. Oh in questo conto
     Delicato io sarei: ci porrei ordine.
Nad. Che vol mo dir!
Giu. Al Servo che mancasse
     A' suoi doveri, senz'altro fracasso
     Piglia, direi questi son due zecchini,
     Vanne di casa mia.
Nad. Basta cussì.
     (Maledetto! l'ho dito. Forestieri!) da se.
     Oh sentì, vegnì quà, Giulio.
Giu. Illustrissimo.
Nad. Saveu che s'ha da far ancuo le nozze
     De Anzoleta mia fia?

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Giu. (Povera figlia!
     Senza un soldo di dote!) Si, Signore
     Lo so pur troppo.
Nad. Perchè mo pur tropo!
Giu. Per molte cause. Prima perchè sorte
     Di casa una figliuola, ch'è il modello
     D'ogni vertù, l'onore del suo sesso.
Nad. Me son vendù in galia per educarla.
Giu. Eh già si sa. Mi duole poi che avendo
     Ad accasarsi, porta seco, come
     Vuole l'onor della di Lei famiglia,
     Un'assai ricca dote, che al Padrone
     Vuota senza pietade e scrigno e borsa.
Nad. (Oh xe ben che costù no sapia gnente
     Che no ghe dago dota; figurarse!
     El me mete i carteli drio le spale!) da se.
Giu. Per ultimo, Illustrissimo, mi duole
     Che per il pranzo d'oggi che sarà
     Lauto e pomposo.... (Avaro maladetto!
     Un prodigio sarà se spendi un paolo!)
da se.
Nad. Sior? e cussì?
Giu. Non potrò aver'io solo
     Onde far apparire del Padrone
     L'ottimo gusto e la magnificenza,
     La necessaria abilità.
Nad. (No par
     Ch'el me burla, custù? No so deboto
     Come far a ordenarghe!). Sentì, Giulio. da se.
     Quelo che mi o da sar, no l'è za minga
     Un disnaron cole formalità,
     Che a quelo come semo convegnui

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     Gà da pensar el Pare del Novizzo:
     Ma un disnareto cussì, come al solito,
     E in confidenza tra de nu. Capiù?
Giu. Si? ci ho gusto davvero! (Eh l’ho predetto!)
     Perde il pelo la volpe, il vizio mai!)
     da se.
Nad. Vecchio?
Giu. Non parlo.
Nad. Me pareva. Donca
     No ghe bisogno, come che vedè,
     De salvadego, o d’altre porcherie,
     Che rovina la borsa e la salute.
Giu. In verità, ch’ella a dover l’intende.
     Poco e polito, come i Firentini.
Nad. Farè donca cussì. Cola sportèlaerrata corrige originale
     Andè fina sul Ponte de Rialto
     Dove a un soldo de manco o dò alla lira
     Ghe xe Colori che vende la carne
     E fevene pesar su i vostri occhj,
     E vardè ben de no farve burlar
     Un ben tagion de dò lirete in circa.
Giu. Aundì presso protrebb’Ella sapere
     Quanti saranno i Commensali?
Nad. Spero
     Che no gabia a esser altri che Lugrezia
     Mia cugnada, el Novizzo co’ so Pare,
     Un’altro al più con Anzoleta e mì.
Giu. E per quattro persone che avran’jeri
     Pranzato bene e fatta buona cena,
     Un pezzo di due lire; come mai?
     Come vuol’Ella che la mangin tutta?
     Avranno almen per una settimana

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     Un’affanno di stomaco infernale,
     E ad una voce i convitati poi
     Maladette diranno quelle Nozze
     E maladetto più degli altri il Padre
     Della Sposa.
Nad. Disè, caro sior Giulio.
     Parleù dasseno, o pur a le mie spale
     Ve dirvertiù?
Giu. La non si accorge ancora?
Nad. Mi no, che co’ parlè fè un certo muso
     Che no arivo a capirve.
Giu. Ma le pare?
     Lo dico sol perchè non vorrei ch’Ella
     Gettasse all’impazzata il suo denaro.
     (Vedi avarizia, e cecità!) da se.
Nad. Torè....
Giu. La non getti, Illustrissimo, il denaro.
Nad. Una lira de’ risi, e po.... sior, sì,
     Ancuo no voi sentirme a dir avaro!
Giu. Oh cospetto di Bacco! Avaro a Lei?
     Mi canzona?
Nad. Torè, do polastreli
     Li farè rosti: un bon quarto peromo...
Giu. Ma la prego, Illustrissimo, riflettete
     Che gli Uomini alla fine non son lupi.
Nad. Gavè rason: ma cossa voleu far?
     Se no i crepa, no i dise ch’i ha magnà?
     Podè tor anca un poco de formagio
     Dò seleni, e un fiascheto al’Osteria.
     E quel che avanzerà....
Giu. Lo serberemo.
Nad. Sior no, quello che avanza... In sta zornada

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     In dì de nozze tuti ha da sguazzar,
     Vel magnerè vualtri: Pasqua e vù.
Giu. In quanto a me, non vo darle un tal danno.
     Ella non sa, Illustrissimo Padrone
     Che con quello che avvanza la può vivere
     Comodissimamente quattro giorni?
     Per me, poichè la veggo nel pensiero
     Di scialare, e trattarsi, e far baldoria,
     Che so? La mi regali uno zecchino,
     E le bacio le man. Vò a provvedere.
     (Torno un momento a veder la Filippa.)
     da se e parte.




SCENA III.
Sior Nadal poi Pasqua.

Nad. MO no l’oi dito, che i xe tanti ladri
     I Servitori? a mi un Zecchin? a mi?
     Me mazzeria co le me proprie man!
     Avari maledeti!
Pas. Mo la bustira!
     O cò alta! O cò alta!
Nad. Coss’è stà
     Vienstu anca ti a tirarme per i pie?
Pas. Oh! povereta mi! Cossa mai diselo?
     Cossa gai fato, caro fio? piange.
Nad. Baroni!
     A mi un zecchin? Bisognerà che staga
     Coi occhi a lerta a quela cassetì....

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.... Na! Cossa vustù? Vame via de qua!
     a Pasqua.
Pas. I ga robà un Zecchin? piange.
Nad. (No......) da se.
Pas. No? ride.
Nad. (No posso
     Lassarmela passar. Mo cossa credeli
     Ch’el sia un Zecchin? Le xe vintido lire!
     Quattrocento e quaranta soldi i xe!
     E i li domanda come se la fusse
     Cossa soi mì, una presa de tabàco.
     Sfrontadoni! Canagie! Forestieri!)
     da se ma forte.
Pas. Nol diga tanto mal dei forestieri,
     Ch’el povero Gerogio mio Marìo,
     Anca lu el gera forestier. piange.
Nad. Dì suso,
     cossa ghe xe de alto?
Pas. L’Acqua, fio. ride.
Nad. Xe cressù l’Acqua?
Pas. Oh s’el vedesse, sior!
     Xe sot’acqua la cale, e dala porta.......
     ridendo.
Nad. Xe sot’Acqua la cale? (Oh questa è bona!
     Donca no poderà vegnir nessun,
     O vegnirà el Novizzo solo. Donca
     Mi posso sparagnar.... (da se). Giulio, el’andà?
Pas. Oh povereto! piange.
Nad. Cosa povereto?
Pas. Vorlo, sior, ch’el se vaga mò a negar?
     piange.
Nad. E ti pianzi?

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Pas. Mi no. Ma l’Acqua ariva, ridendo.
     Co dise quelo, fin’a meza scala.
     E ‘l Canevin dove ch’el ga i fiascheti
     I Salai, le formagie, xe sot’acqua.
     ridendo.
Nad. E ti ridi? E ti aspeti a dirlo a desso?
     Oh povereto mì! Zente...... Ma no!
     Ajuto...... Oe no chiamar minga nissun!
     a Pasqua.
     Son rovinà, sassinà! Svalisà!
     corre facendo atti di disperazione.




SCENA IV.
Pasqua poi Anzoleta.

Pas. OE! vardèmo! Vardè, quando che i dise!
     I ha svalisà ‘l Paron! Povero Puto!
     Me despiase dasseno, perchè pò,
     Siben ch’el dà pocheto da magnar,
     Dirò co dise quelo, mi me par
     Giusto ch’el sia mio fio! Tolè, chi mai
     Se l’averia pensada! Poverazzo! piange.
     Oe! Ch’el ghe pensa lu, co dise quelo!
      ride.
Anz. Disè, Pasqua, Sior Padre cossa galo
     Che l’ho sentio za un poco tarocar?
Pas. Oe ve dirò co dise quelo, fia,
     Dele soe.
Anz. Che vol dir?

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Pas. Xe cressù l’acqua;
     Ghe l’ho dito, ch’el stava za criando
     No so perchè o con chi, che no ghe gera
     Anema viva: e quando gò contà
     Ch’el Canevin xe quasi soto acqua,
     El s’ha messo a sbragiar, co dise quelo,
     Ch’el pareva che soimi; e l’è andà via
     Criando ajuto! Son stà svalisà! piange.
     Oe! Per mì no so gnente vedè, fia! ride.
Anz. Xe cressù l’acqua? Xela alta assae?
Pas. De diana! Se vedessi! Oe, za un’oreta,
     Quand’ò averto el balcon dela cusina,
     Russava el scuro el selze d’una Barca
     Che gera soto. Oh semo bassi assae!
     Dirò, co dise quelo, qua ghè el Pergolo.
     Averzì, fia, che vederè. ride.
Anz. Ve credo.
     (No voria, che Zaneto dala pressa
     De vegnir quà, s’avesse da bagnar!
     El xe cuss’impetuoso! Figureve!
     Le caene nol tien! el pol sbrissar!
     El pol farse del mal!) da se.
Pas. Ma! piange.
Anz. Cossa ghè?
Pas. Eh gnente. si asciuga gli occhj.
Anz. Via disè, cossa gavèù?
Pas. Gnente ve digo, fia. come sopra.
Anz. Vogio saver.
Pas. Ve fè novizza vù! come sopra.
Anz. Ben, e cussì?
     Ve sughè i occhi? Cossa mo vol dir?
Pas. Me vien in mente, cara fia, quel dì

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     Ch’anca mi m’ò sposà col mio Gregorio!
     Poverazzo! el xe morto, e morto zovene;
     El m’ha portà via el cuor, co dise quelo!
     Co vedo sior Zaneto, tal, e qual,
     I pareria fradei: dò giozze d’acqua,
     Un pomo in do spartio!... D’amor savè
     El m’ha sposa d’Amor! piange.
Anz. Via cara Pasqua
     Lassevela passar. Xe tanto tempo!
     (Poverazza! la va alla sensa!) da se.
Pas. Oh fia,
     No xe po miga tanto, e col m’à tiolto
     Dirò, co dise quelo, ger’ancora
     Da late se pol dir! Ghe vol pazienza!
     piange.
     Oe, gnancora son morta! Un dì, chi sa!
     Chi sa, che un dì no me resolva... basta...
     ride.
     Vago a impizzar el fogo, che xe tardi,
     E po a laorar per vù, co dise quelo. parte.




SCENA V.
Anzoleta sola.

Anz. POvera vecchia! La me fa pecà!
     No ghe rege el cervelo, e la prencipia
     A no capirse, e a no farse capir.
     Passa el tempo per tuti, e per le done
     El core a precipizio! In tun momento

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     Se fa brutta la bela, e istolidisse
     Una dona de spirito, che un zorno
     Gera come un prodigio circondada
     Da una fola de Amanti amiratori!
     La me invidia perchè me fasso sposa?
     Chi pol decider se per questo aponto
     Merito invidia più che compassion?
     Nol so ben gnanca mi. Confusa passo
     Dala speranza che me vol contenta
     Al timor che me afana e sbigotisse:
     E ancuo me sento per el cuor un certo
     Bisegamento che n’ho più provà!
     Zaneto me vol ben: Zaneto ha un cuor
     Che pol render felice una Muger.
     Sposandome con lu, lasso una casa
     Dove un Padre, aciecà dal avarizia
     Se desmentega el sangue, e la Natura,
     E me tien tra i bisogni come schiava
     Più che in conto de fia: vado in tun’altra
     Dove un Missier inamorà de mì
     Coi brazzi averti, e con tanto de cuor
     Me aspeta per remeterme el possesso
     E ‘l manegio de tuto! Cossa, donca
     Gastu, Anzoleta, che no ti è contenta?
     Ah! Quela maledetta zelosia
     Ch’el cuor’orba a Zaneto, e per la qual
     Mile spasemi ho audo da soffrir,
     Sì questa, questa causa el mio timor,
     Questa me pressagisse mile afani
     E me lazzera el cuor, e me despera.
     Coss’oi donca da far? No ghe più tempo!
     Le circostanze, e più de tuto el cuor

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     Sedotto prima, e adesso strassinà
     Del mio incerto destin me vol in brazzo.
     Anzoleta, no te avilir, costanza,
     Forza, e rassegnazion.




SCENA VI.
Zaneto sula riva de fazzada del Pergolo, e Anzoleta in sala.

Zan. OE Pasqua, Pasqua!
     Oh giusto vù: tirè, Giulio, fè presto.
Anz. Sento che i chiama sula riva in fazza.
     La me par l’ose de Zaneto. O giusto!
     va al Pergolo.
     L’è lu, l’è lu, ch’el vien! oh Dio! me manca
     El respiro, e me sbalza el cuor dal sen.




SCENA VII.
Zaneto in bergonzon galonà, e stivali,
e detta.

Zan. ANzoleta, sioria.
Anz. Sioria Zaneto.
Zan. Steu ben?
Anz. Si stago ben.
Zan. Disè dasseno

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     Me aspetevi cò st’acqua?
Anz. Ve aspetava,
     Perchè so che co’ avè fissà una cossa
     Volè farla sicuro, casca el Mondo.
     Come, au fato a vegnir? No me par vero!
     Sarè tuto bagnà da capo a pie?
Zan. Mio Pare no voleva che vegnisse,
     El m’ha dito aspetè che cala l’Acqua
     Che vegnirò anca mi. Ma cossa salo
     Mio Pare, nol xe minga inamorà.
     No l’è ‘l Novizzo minga lu; son mì.
     L’andava per le longhe: el gera in leto
     Ch’el toleva la chiocolata al solito,
     Un sorso ogni mezz’ora. Figureve!
     Mi no podeva più. Lu me burlava...
     El me fava una rabia!.. Ma mi ò fato
     I mi conti tra mi. So ch’el va sempre
     In tuto per le longhe, digo, a ora
     Ch’el finissa de tor la chiocolata
     Ch’el se ressolva de vestirse, e po
     Ch’el trova l’acqua a so modo calada
     Ghe vol un’ano almanco. Caro Sior,
     El se toga el so comodo, e ‘l me lassa,
     Digo, andar mi, che za per lù è a bonora.
     Lo aspeteremoerrata corrige originale, el vegnirà col vol.
     Sì, no; no, sì; dai, tira, mola, alfin
     El m’à lassà vegnir. M’ò messo in pressa
     I stivali, m’ò messo el bergonzon
     E non ostante l’acqua che coverze
     Quasi tute le strade, e xe za in Piazza,
     corendo come un desperà, che mato
     Certo qualcun m’averà dito drio,

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     Pien de Amor, pien de smania che siè mia
     Car’Anzoleta, son vegnù da vù.
Anz. Caro Zaneto, me despiase solo
     Che v’averè strussià. Sè tuto un’acqua.
     Caveve zo, che ve farò netar
     El bergonzon. Lassè. Uh! uh! che macchia!
Zan. Eh gnente, gnente.
Anz. Come l’altro zorno
     Certo no la gavevi. Caro vù
     No me petè busie. Vù sè cascà
     E vè sarè a un bisogno, fato mal.
     Disè la verità.
Zan. Gnente ve digo......
Anz. Sior no, vogio saver.
Zan. Eh via fredure!...
Anz. Sior no, ve digo.
Zan. Ma se ben curiosa!
Anz. Me par mo, Sior, che stà curiosità
     No dovaria despiaserve pò tanto.
Zan. No; ve son’obligà, car’Anzoleta,
     So che per mi gavè buon cuor.
Anz. Buon cuor?
     E gnente altro? Gò buon cuor per tuti.
Zan. Per tuti?
Anz. Si per tuti, e me ne vanto.
     Ma me pareva per el Sior Zaneto,
     E credeva che a st’ora el lo savesse,
     De aver qualcossa de più, che buon cuor!
Zan. Cara, me consolè. Non andè in colera.
     Perdoneme, ve prego, e ve sodisfo.
     Xe vero, son cascà. Gò i stivai novi,
     Ò sbrissà do tre volte dalla pressa

[p. 43 modifica]

     De caminar, e m’ò rimesso subito.
     Ma giusto, quatro passi, se pol dir
     Lontan de quà, zo del secondo Ponte
     Dove l’acqua xè fin a meza cale
     Ò trovà un forestier con un spadon
     Che no feniva mai, che come mì
     Coreva a precepizio. El me voleva
     Andar avanti, e za el me gera andà.
     Chi sa mi ò dito alora tra de mì
     Percossa che sto Sior gà tanta pressa?
     E se xe mo la fame che lo spenze
     E nol core che per torse un zaleto?
     Mi che vado a trovar la mia Morosa
     Che ancuo dopo do àni de sospiri
     À d’esser mia Muger, ghe starò in drio?
     Sior no! Co sto pensier me fico avanti,
     Lo chiapo, e ghe son subito ale spale!
     Ma giusto in quel momento che lo vogio
     Superar, un facchin me vien incontro,
     Ghe dago logo parchè ‘l passa, e intanto
     Me trovo tra le gambe quel spadon,
     Me vogio sbarazzar, ma sbrisso, e zò,
     Dago una stramazzada maledeta.
Anz. Ve seù mò fato mal? con passione.
Zan. Se mene avesse
     Anca fato, a sentirmelo da vù
     Con tanta bona grazia a domandar
     con dolcezza.
     In tun momento el me saria passà.
     Coss’è de Sior Nadal?
Anz. El tarocava
     Za un fià, che ghè andà l’acqua in Canevin.

[p. 44 modifica]

Zan. Me la son dada subito per diana
     C’ò visto averto el Canevin; e Giulio
     Con un’altro che n’ò destinto ben
     Ma che sarà sta certo Sior Nadal,
     Che i stava c’una sessola butando
     Via l’acqua dala porta e dal balcon.
     Figureve, el sarà sta desperà.
     Avaro maledeto! Sula forca!
     Nol posso tolerar.
Anz. E quante volte
     Vel ogio mo da dir, che de mio Padre
     No voi co sto desprezzo che parlè?
     con serietà.
     Se l’amor che per mì disè de aver
     A respetarlo no ve insegna, almanco
     La creanza ve l’à, Sior, da insegnar.
     Se Avaro lo credè, se l’avarizia
     Un vizio la ve par che renda un’omo
     L’ogeto del comun riso e desprezzo,
     Profiteghene, Sior, senza oltragiar
     Con vilanie, con imrpoperj el Padre
     Sul viso d’una fia che lo rispeta.
Zan. De diana! Andè ben presto zo dei bazeri.
     Alfin po, cara fia, se qualche volta
     Digo qualcossa, el digo...
Anz. Troppo spesso
     Ve vien ste vogie, Sior come sopra.
Zan. Alfin el digo
     Car’Anzoleta solo per amor.
     Pensar che vostro Pare da Regina
     Ve poderia far star, e ch’el ve lassa
     Bisognosa de tuto......

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Anz. Chi l’à dito?
     El mio bisogno el gò.
Zan. Car’Anzoleta,
     Sa tuto el Mondo come ch’el ve trata.
     E se sà, che, tra l’altre cosse, spesso
     Ve manca da magnar.
Anz. No è vero, Sior.
     Mi no me manca gnente, e voria ben
     Saver chi v’à contà tute ste cosse!
     Come podeù mai crederle, se mì
     Gnancora sò de averme lamentà?
Zan. Eh Giulio, Pasqua...
Anz. Colù là xe un furbo
     Che no fa el so dover, che impertinente
     In ridicolo mete el so Padron
     Perchè...
Zan. Nol ghè dà un bezzo de salario.
Anz. Come donca ghe stalo se xe vero?
     E a colù ghe credè? Ghe credè a Pasqua
     Che no capisse più quel che la dise,
     E messa mi al confronto de sta zente
     L’insolenza me fè de dubitar?
Zan. Eh Anzoleta, conosso el vostro cuor
     So de quanta virtù vù se capazze.
     Basta, vero, o no vero l’è fenia.
     No avè più da patir.
Anz. Ma, ve lo replico,
     De mio Padre parlè come se deve
     O tra de nu ghe sarà sempre....
Zan. Zito!
     Par sta volta scuseme, e assecureve
     Che par sta parte non averè de mì

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     A dolerve mai più. Disè Anzoleta
     Gersera, dopo, che son andà via
     Xe più vegnù nissun?
Anz. Mì no so gnente.
     Mi n’ò visto nissun. Sò andada in leto
     Apena sè voltà zo dele scale.
Zan. E pur mi so...
Anz. (L’è qua con dele soe. da se.
     O povereta mi!) Cosa saveù
     Disè su, destrigheve.
Zan. So che.... No....
     Vù me l’avè da dir.
Anz. No voria dirve
     Una busia senza malizia; forsi
     Sarà sta qualchedun; ma mi.
Zan. Sì ben,
     Xe sta qualcun, e vù... (Mi no so gnente
     E moro dala vogia de saver!) da se.
Anz. Oh! Sior Zaneto?... fremendo.
Zan. Sarà sta qualcun
     Che mi n’ò da saver!
Anz. Oh! Sior Zaneto!... come sopra.
Zan. Mi no l’ò da saver. Son el Novizzo,
     E a bon’orà i Novizzi s’à da usar
     A no saver, a no cercar mai gnente.
     con dispetto.
Anz. Zaneto!... come sopra.
Zan. Figureve! Se gnancora
     Sposai....
Anz. Zaneto!... come sopra.
Zan. Ò tanto da soffrir!...
     Basta!... Cò la sarà pò mia muger!

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     O povereto mi, come saràla?
Anz. Zaneto, digo!.... come sopra.
Zan. No savè dir altro?
     Lo so anca mì che gò nome Zaneto
     Ma no vorave che per causa vostra
     I m’avesse pò un zorno a chiamar Luca!
Anz. Oh son mo stufa, che non posso più
     De soffrir tuto el dì tante insolenze,
     tant’indegni strapazzi, e vilanie,
     Sior Zaneto, da vù. Penseghe ben:
     E no ve immaginè, che me despona,
     Sol perchè me sposè senza la dote,
     A volerme sempre taser, e sofrir.
     Una Puta d’onor prima de tuto
     À da stimar se stessa, e ‘l so decoro:
     E finchè la xe in tempo d’evitar
     La desgrazia magior che ghe sovrasta,
     Ch’è quela d’un Mario senza giudizio
     Che con mile sospeti tuto el zorno
     L’oltragia, l’avilisse, e insegna ai altri
     A perderghe ‘l respeto, l’à da far
     Finchè in tempo la xe, un’onorata
     Forte ressoluzion. Zaneto, mì,
     No velo scondo, mi ve vogio ben:
     I mj Parenti e i vostri za lo sà
     E deboto lo sa tuta Venezia.
     Se ve sposo, lo fazzo per amor
     Per speranza con vù d’esser felizze
     Ma se sentì de no poderve presto
     Liberar de sta vostra zelosia
     Per la qual mile vedo in lontananza
     Spasemi da soprir pene d’Inferno;

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     Caro Zaneto, ressolveve: mì
     con commozione.
     Son za disposta e pronta a secondarve;
     Tagemo a mezo el filo dela nostra
     Iminente comun desperazion:
     No se semo infelici uno con l’altro.
     Semo a tempo, lassemose, che alora
     El cuor in quiete mi ve lasserò:
     Vù l’onor mio no insulterè cussì.
     parte piangendo.




SCENA VIII.
Zaneto solo.

Zan. O Povereto mi! coss’oio fato?
     Povera Puta! la me fa pecà!
     So anca mì che ghe fazzo un’insolenza
     A sospetar cussì. Coss’oi da far?
     Un cuor mi go, che sielo maledeto,
     Nol me lassa un momento star in pase.
     Se podesse cambiarmelo, magari!
     Ma no ghè caso! Questa xe la terza
     Volta che m’inamoro, e sò sta sempre
     Sempre zeloso! È vero che no ghè
     Da far confronto da que altre a questa
     De carattere e cuor diversa assae.
     La prima a forza de farghe la spia
     L’ò vista un dì, che... basta, la m’à fato
     Desiderar dasseno d’esser orbo.

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     L’altra che ghe voleva ben assae
     Che ghe stava coi occhj sempre adosso
     De tuti i mj sospeti gentilmente
     M’ha volesto provar che go rason.
     Ma sta povera Puta!... Oh mi son mato,
     E a far giudizio ò da stentar un pezzo!
     Basta. Vado a giustarla se ghè caso.
     Prometerò non esser più zeloso,
     Pregherò, zurerò; ma se me nasse
     Qualche novo sospeto? Oh se l’è vera,
     Chi nasse mato no guarisse mai!




SCENA IX.
Scena in Casa de Siora Lugrezia.


Siora Lugrezia, Tonin, e Lucieta.

Lug. GNancora el vien sto Sior?
Luc. Ma, cara ela
     Mi no so cossa dir, lo compatisso.
     L’acqua xe fina drento dele porte.
     Dove ch’el sta, lu no ga riva in casa:
     Xe quatro dì che l’è vegnù a Venezia:
     Nol sa gnente, nol ga nissuna pratica.
     Me par che l’abia d’esser intrigà;
     E mi credo, che a lu più d’ela istessa
     Ghe despiasa seguro.
Lug. Manco mal.
     Ma l’à da far el so dover, e quando
     Se promete vegnir, cascasse ‘l Mondo

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     No xe permesso de mancar. Ger sera
     Ghe l’ò dito e stradito: domatina
     Sior Conte, no falè: vegnì a bonora
     E quanto più abonora che podè:
     Da mio Cugnà vogio che andemo insieme
     Che s’à da far le nozze de so fia.
     Dè ordene stassera co’ andè a casa
     Che i ve desmissia a tredes’ore al più:
     Le disissete xe sonae: gnancora
     Che sielo maledetto, no l’è quà.
Luc. Ma siora, a tredes’ore no xe dì,
     No se ghe vede gnente. A disissete
     Sona terza, e la xe ora discreta.
     Se l’acqua dasse zoso un tantinin
     Lu presto saria quà. Oh la va, Siora,
     La va a bonora quanto che la vol.
     (Vorave meter ben, povero diavolo,
     Che ghe casca dei mezi ducateli;
     Ma co sta mata che ghe magna i occhi
     Ogni momento, poco posso far.) da se.
Lug. S’el vegniva a bon’ora come mì
     Gò tanto predicà, l’acqua no gera
     Tant’alta, s’averia podesto andar.
     Adesso val a cata, se se pol
     Cole barche passar soto dei Ponti.
     E tuto causa quela maledeta
     Testa che no vol far quel che se dise.
Luc. Ma poverazzo, come mo podevelo
     Imaginarse che dovesse l’acqua
     Crescer tanto da farlo star in casa?
     Me par, gramo, de veder, ch’el se brusa
     Per no poder vegnir!

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Lug. A monte, siora,
     A vù no se ve speta de parlar
     So mì quel che farò! Ch’el vegna pur
     Ch’el me vegna davanti! Oh vogio certo
     Farme sentir.
Luc. (Che bestia!) da se.
Lug. Se ghe fusse
     Qualcun de sesto za sarave andada:
     E col vegniva, l’averia imparà
     El Sior Conte del diavolo ch’el porta
     In che modo se serve le mie pari.
Luc. Ghe xe qua Sior Tonin...
Lug. Cossa voleù
     Che sapia quel Pandolo vegnù fora
     Gersera de Colegio? Nol sa gnanca
     Far la scala.
Ton. Oh Sior-Amia, si dasseno
     Che la so far. O avudo finadesso
     Diese lezion, e sono el menueto.
Lug. Tasè, Sior scempio; no averzì la boca
     Che no disè un sproposito.
Ton. Ma Siora,
     La me fazza portar mo qua el violin;
     Ghe la farò sentir.
Lug. Via, tasè la;
     E no parlè se no velo comando.
Luc. (Oh che Puto de sesto!) da se.
Ton. Taserò.
     (Anca a casa in silenzio? No credeva!
     No ghè altro de bon quà co Sior-Amia
     Che no ghè scola, e che se magna ben.
     Ma gò una suggezion!) da se.

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Lug. Oh se la fazzo,
     Se ghe la fazzo bela! Con chi credelo
     Sto sior, aver da far? vojo insegnarghe,
     Ghè insegnerò chi son.
     facendo atti di dispetto.
Luc. (Gnente che rido,
     Col vien, povero diavolo! el sta fresco!)
     da se.
     Che ghe fazza el cafè fina ch’el vien?
Lug. Andè al diavolo, andeme via de quà,
     Che go una stizza adosso, che deboto
     No so quel che me fazza. come sopra.
Luc. (Mo che furia!
     La buta fogo! Siestù maledeta!) da se.
Ton. (Sia malegnazo! Sempre i cria, no posso
     Divertirme un pocheto granca al Trotolo!)
     da se.
Luc. Oh! i bate sala.
Lug. S’el xe lu, nol voi
     Diseghe, ch’el se vada a far squartar.
Luc. Vago a veder intanto per el resto
     La ghelo dirà Ela se la vol.
     (Oh se l’è lu, lo aviserò ch’el vaga
     Coi pie de piombo, e cole molesine
     Che ghè borasca in mar. Povero diavolo!
     El spente el spande, e tuto el zorno el fa
     Da Zane e Buratin, e no ghè giova.
     Eh za l’è vecchia, che chi lava l’aseno
     El tempo buta via, l’acqua, e ‘l saon.)
     da se, parte.

[p. 53 modifica]
SCENA X.
Siora Lugrezia e Tonin.

Lug. COssa steu là contando i travi, Sior?
     A Tonin.
Ton. E disissete e disdoto, e disnove....
     con un dito e col viso volto all’insù.
     La m’à fatto falar! Sia malegnazo!
     Da capo uno, do, tre....
Lug. Ve par, sior frasca
     Che questa sia creanza? Xelo el fruto
     Che avè fato in colegio?
Ton. Siora no:
     Dove che stago mì, no ghè xe travi,
     Xe fato a volta.
Lug. Mo va la, che ti è
     El gran Macaco! Ti è un pomo spartio
     Col to povero Pare mio fradelo.
     Puh! Mamaluco!

[p. 54 modifica]
SCENA XI.
Lucieta, un Servitore, e detti.

Luc. VEgnì avanti pur.
     Siora Parona, ghe xe un Servitor
     Che ghe vorave dir una parola.
Lug. Chi seu, sior? Chi ve manda? Destrigheve.
     al Servo.
Il Ser. Illustrissima, io sono lo Staffiere
     Del Signor Conte Asdrubale, che inchina
     Vù Signoria Illustrissima, e la prega
     Scusare, s’Egli per cagion dell’Acqua
     Non ha potuto.
Lug. Ghe dirè a Sior Conte
     Da parte mia ch’el me par un bel aseno;
     Che no l’è la maniera de tratar:
     Che drento de sta porta, e su ste scale
     Nol abia più coragio de vegnir,
     Che saverò po mì....
Il Ser. Ma la mi lasci
     Finire l’imbasciata, il Signor Co......
Lug. No vogio sentir altro. interrompendolo.
Il Ser. Il Signor Co....
Lug. Ch’el diavolo lo porta. come sopra.
Il Ser. Il Signor Co....
Lug. Andeme via de qua. No voi sentir.
     come sopra.
Il Ser. Ma la mi lasci dire, il Signor Co....
Lug. Voleù finirla? Mè parè un bel à....
Il Ser. Ma Signora il Padrò... interrompendola.

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Lug. Ma mì de boto
     Ve fazzo far un salto dale scaleerrata corrige originale.
Il Ser. Non occorr’altro, vado. (Maladetta!
     Le o potuto mai dir che il mio Padrone
     È per via che sen viene? O che Demonio!)
     da se, e parte.




SCENA XII.
Siora Lugrezia, Tonin, e Lucieta.

Luc. (L’ala mò lassà dir? No la sa gnente,
     E’l Cont’è quà ch’el vien! oh se podesse
     Lo pregarave in zenocchion perchè
     Nol ghe vegnisse! la me fa una rabia!
     No la posso sofrir!) da se.
Ton. Cara Sior-Amia
     La me lassa zogar a mariaorba,
     O a le scondariole con Lucieta,
     Cara ela, Sior Amia, cara ela!
Lug. Tasi la, Frasca, non aver coragio
     De parlar, o te mando qua sul fato
     In Colegio.... sbassè quei occhi, Sior.
Ton. (O povereto mì! Sia malegnazo!
     Ne l’un ne l’altro? almanco ale burele!
     La xe pezo do volte del Maestro!)
     da se e piange.
Luc. (Povero Bernardon! el se despera!
     Mi credo, che anca lu s’el lo podesse
     El ghe darave un pugno o un morsegon)
     da se.

[p. 56 modifica]

Lug. Deme da imascherar. a Lucieta.
Luc. Ma se l’à dito....
Lug. Manco chiacole, siora: no voi repliche.
Luc. Vado, no parlo. (Siestu maledeta!)
     da se, e parte.
Lug. Oh, no lo voi più certo per i pie.
     No se trata cussì co le mie pari.
     So mi quel che farò! Vogio, Sior Conte
     Voi che me la paghè, ma come và!
     Un’insolenza a mi? No ghene tegno
     Se tornasse mio Pare! Conte Aseno!




SCENA XIII.
Lucieta, con la maschera in mano, cappello,
tabarro, bauta, ec.

Luc. OH son quà col tabarro, e la bauta.
Lug. Tegnì, sior.
     Da la bauta da tenere a Tonin e si mette il tabarro andando su e giù per la scena.
     Cossa credelo che sia?
     Una calera? Una sgualdrina? A mì?
     A Lugrezia Tomioti? Oh ti l’à fata
     A un Diavolo che gà, bona memoria.
     Ti me l’à fata a mi! Dove xe ‘l specchio?
Luc. Vago a torlo.
Lug. Chi mai l’averia dito.
     Mi ch’ò impiantà ai mi zorni tanta zente,

[p. 57 modifica]

     Ò d’esser impiantada da Costù?
     O Romano del diavolo, sta volta
     Ti t’à mal intrigà.
Luc. Son quà col specchio.
Lug. Prende la bauta dalle mani di Tonin, e gli da a tenere lo specchio.
     Deme qua, tegnì saldo; tegnì dreto.
     Dov’è el frontin? a Lucieta.
Luc. Ecolo quà.
Lug. Si mette la bauta e si guarda allo specchio che Tonin tiene in mano.
     Tegnì.
     Tegnì dreto, sior Aseno, cussì.
     Tremeu le man? a Tonin.
Ton. Go un fredo malegnazo,
     Se la lassava, che zogasse un poco
     Me saria za scaldà.
Lug. Puh! Panpalugo!
     Dè qua. Tegnilo, vù, Lucieta.
Luc. Vegno.
Ton. (No vedo l’ora de vegnir più grando.
     Co’ vegno fora de Colegio, subito
     Me vogio trovar subito una bela
     Signora da servir! Ma minga un diavolo
     Come Sior-Amia. Zogaremo insieme
     A la bala, al volante, a le manatole:
     Anderemo al Casoto del Borgogna!
     Oh me voi divertir! Nò vedo l’ora!)
     da se.
Lug. Coss’andeu tambascando tra de vù,
     Sior stolido?
Ton. Mi? gnente.

[p. 58 modifica]

Lug. Tasè la.
     Lucieta, andelo a imascherar in pressa
     Che anderò via con lu. Mandè a chiamar
     Nane al Tragheto: che l’ariva subito,
     Che voi subito andar.
Luc. (Che bel servente!
     Che invidia ch’à da far la mia Parona!)
     da se.
     El vegna quà co mì.
     prende Tonin per una mano.
Ton. (Sia malegnazo!
     Se i me vestisse almanco da Brighela!)
     parte con Lucieta.




SCENA XIV.
Siora Lugrezia poi ‘l Conte Asdrubale.

Lug. Se nol sa la creanza, ch’el la vada
     El Sior Conte a imparar.
Il Co. Signora mia,
     Eccomi a cenni suoi. L’avrà il mio Servo
     Avvertita di già della ragione
     Per cui......
Lug. Lè un bel coragio! Chi v’à averto
     Sior Aseno, la porta? Chi v’à fato
     Vegnir su de ste scale?
Il Co. Era la porta
     Aperta quand’io venni: Ella per questo
     Vede com’io son quì. Ma non intendo

[p. 59 modifica]

     Io poi, Signora, la ragion per cui
     Del bel titolo d’asino mi onori.
Lug. Mi me sorprendo! No la m’è più nata!
     Dopo de un’asenada de sta sorte
     Gavè ‘l coragio de vegnirme in fazza?
     Saveu, sior chi son mì?
Il Co. Sì, mia Signora.
     Ell’è la gentilissima Signora
     Lucrezina Tomiotti, mia Padrona.
Lug. Se de mi no savè altro ch’el nome
     Ve vogio mo insegnar el mio caratere.
     Sapiè che dopo quel che m’avè fato
     Pretendo farve una finezza granda
     A lassarve andar zoso dele scale
     Come sè vegnù su.
Il Co. Ma la posso almeno
     Sapere la ragion di tanto sdegno?
Lug. Fè ‘l mamaluco, feve dala vila
     Quando mo che volè, che un’insolenza
     No la vogio sofrir.
Il Co. Ma, mia Signora,
     S’ella è bella e gentile, sia di grazia
     Anche buona un pochino! Come mai
     Son’io stato si sciocco, ed incivile
     Di fare insulto a chi vorrei piacere?
     Come l’offesi mai? Tanti strapazzi
     Come ho potuto meritarmi? Almeno....
Lug. Con quela vostra flema maledeta
     Se savessi che vogia che me vien!
Il Co. Ma la si sfoghi pure! (io non capisco!)
     da se.
Lug. El me vien tuto el zorno per i pie:

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     Mi me lasso secar matina e sera:
     Ghe fazzo sempre mile bone grazie...
Il Co. Ed io ci ò tutta la riconoscenza.
Lug. Mi no parlo con vù, sior pezzo d’aseno.
Il Co. (Che diavolo di Donna è questa mai?)
     da se.
Lug. Ma pazienza, se mi tuta gersera
     No m’avesse sfiatà, come che soimi
     A dirghelo, e ridirghelo. Doman
     accozzando le parole ed alzando la voce,
     Sior Conte, fè che i ve vegna a svegiar
     A bonora: A bonora, levè su:
     Vegnì a bonora quà, perchè a bonora
     Vogio a bonora, siestu maledetto,
     Andar da mio Cugnà, che fa novizza
     La so Puta. Au capio? Signora mia
     contrafacendo il Conte con caricatura.
     Con quela flema da mazzarlo, subito
     El m’à risposto, mia Signora, senza
     fallo, non tema, non dubiti, certo,
     Sarò da Lei per tempo, per tempissimo.
     Che te possa vegnir la scaranzìa.
Il Co. Ò capito Signora. Ma se l’Acqua
     Crebbe la scorsa notte a segno tale
     Che non era possibile venire,
     E il Gondolier....
Lug. Se monta su le spale
     D’un Fachin come vù... come sopra.
Il Co. Ma questo poi....
Lug. Se tol i so stivali, e po bel bello
     Se vien per l’acqua....
Il Co. Io non sapeva poi

[p. 61 modifica]

     Che per fare a dover da Servente
     Fosse anche d’uopo di saper nuotare.
Lug. Se fa de tuto, Sior, quando che preme
     De far el so dover.
Il Co. Non so che dire.
Lug. Cossa voressi dir?




SCENA XV.
Lucieta, Tonin, e detti.

Ton. SOn quà, Sior’Amia
     La varda se son ben imascherà.
Luc. (El ghe lu el Conte! Povero gramazzo!
     Oh se mi fusse un’Omo! Ma l’è un pampano!)
     da se.
Lug. Va via de quà Pandolo. a Tonin.
Ton. Mo magari!
     El magnerave mi un Pandolo!
Lug. Andè
     Andè de là: menelo via. a Lucieta.
Ton. Pazienza!
     Andemo pur Lucieta. Zogaremo
     All’Oca insieme.
Luc. Sì, quelo ch’el vol. a Tonin.
     Vegno, ch’el vaga pur. (Bisogna ancora
     Lassar el sorze in boca dela Gata!) da se
     Via, da bravo, el se giustà. S’el savesse
     Che scene! l’ò disesto mi ala mejo!
     al Conte.

[p. 62 modifica]

     Ma l’è testarda, e cussì presto... via
     El fazza cuor, e po’l ghe daga drento).
     parte con Tonin.




SCENA XVI.
Siora Lugrezia, e il Conte.

Il Co. SIgnora, la mia Gondola è alla riva,
     E s’ella vuole...
Lug. No voi gnente, Sior.
     No go bisogno dele vostre barche,
     Che go ancami co vojo una lirazza.
Il Co. Eh non dico per questo... Ma... Possibile
     Ch’Ella ch’è sì buonina, e sì gentile....
     Vuol’Ella perdonarmi? Io ne la supplico!
     va per baciarle la mano: ella lo scaccia.
Lug. No ghè supliche, Sior, che tegna, a mi.
     Farme a mi un’insolenza de sta sorte?
Il Co. Signora mia, non c’ebbi lelo giuro
     Malizia, e sono pronto ad attestarle...
     (Costei mi stanca!) da se.
Lug. Basta, se sta volta
     Ve perdonasse, che no gò intenzion,
     Tegnive a mente, Sior, che sò una dona
     Che no se gà mai fato la seconda
     Senza che la se cava i sò caprizzi:
     E me ne vien de beli, savè, Sior?
     E me li so cavar, Conte garbato!
Il Co. (Che pazzia m’è venuta per il capo

[p. 63 modifica]

     D’innamorarmi di questo demonio!) da se.
     Signora, avrò, lo giuro, in avvenire
     L’attenzione per Lei più scrupolosa;
     E giorno e notte, e notte e giorno, sempre...
Lug. Sior, se farè cussì, che questo è ‘l vostro
     Dover, le cosse anderà mejo assae.
     Penseghe, e ressolvè: O sempre e in tuto
     Ciecamente ubidirme, o andar lontan
     Tanto da mì, che se vivessi un Secolo
     Granca per acidente, no ve senta
     A nominar mai più.
Il Co. (Ma come mai
     Poss’io tanti soffrir sgarbi ed oltraggi!
     Povero Conte! Tu se’ pazzo, e il peggio
     È che non vuoi saperne di cervello!
     O Amore, Amor!) da se.
Lug. Au fato i vostri conti?
     Vardè che se falè, pezo per vù.
Il Co. Signora, io sono così certo d’essere
     In buone mani, e ch’Ella vorrà sempre
     Esser meco gentil, giusta, e discreta
     Che il perdon generoso ch’Ella m’offre
     Io grato accetto...
Lug. Oh mi per la mia parte
     No voi prometer gnente, che no vojo
     Debiti con nissun. Se sarè atento,
     E se al vostro dover no mancherè,
     Se pol dar che col tempo... Ve permetto
     In quel caso, Sior Conte, de sperar!
     Intanto per provarve che la colera
     Me xe passada un poco, e che no son
     Ostinada po quanto che credè,

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     Tolè, basè sta man. gli porge la mano.
Il Co. O mè felice!
     Mille grazie, Signora, mille grazie.
     O Conte! O Conte! O fortunato Conte!
     gliela bacia con trasporto.




SCENA XVII.
Tonin di dentro, poi Lucieta con un Cagnuolino
in braccio, e detti.

Lug. O Andemo, se volè. al Conte.
Ton. Son morto! ajuto! di dentro.
Lug. Oe Lucieta, Lucieta. forte.
Luc. Siora, Siora, frettolosa.
     Coss’è stà? cossa vorla? La m’ha fato
     Giazzar el sangue addosso.
Lug. Coss’è stà?
     Coss’è nato de la? Dov’è Tonin?
     Cossa galo ch’el cria el moro, son morto?
Luc. E con tuto sto xugo la me chiama
     Con quela bagatela d’ose, Siora?
     Cossa vorla ch’el gabia? L’à volesto
     Che con lu zoga al’Oca. El xe andà subito
     A la prima missiada con un nove
     Sora el cinquanta tre. Mi ò fato un dò.
     Lu burlandome el missia darecao:
     Co fazzo un diese, el dise, mi son fora:
     L’à fato un cinque, e l’à cigà son morto.
Lug. L’è un stolido colù...

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Luc. Ma qua po, Siora
     Nol ga torto.
Lug. Sior Conte, andemo pur.
     Che vegn’anca Tonin. Se vien la Barca
     a Lucieta.
     Del Traghetto, diseghe...
Luc. No l’ò minga
     Siora, fata chiamar.
Lug. No? Ma perchè?
Luc. Perchè saveva, ch’el Sior Conte presto
     Sarìa vegnù: ch’Ell’averia crià
     Strepità, ma che pò dolze de cuor
     (Ma che dolcezza!) A sto povero gramo
     da se.
     Alfin la gaverave perdonà.
Ton. Sior-Amia, àla savesto, che son morto?
Lug. Oh ti disessi un dì la verità.
     O andemo, che xe tardi. Ghe xe fogo
     Drento in tel Scaldapie? Deghelo al conte.
     a Lucieta.
     Maschè dov’ela? a Lucieta.
Luc. La gò in brazzo, Siora.
Lug. Deghela al Conte. El Tabarin de pele,
     Che là gaverò fredo?
     a Lucieta, che va prendendo tuto da di sopra una Tavola.
Luc. Ecolo quà.
Lug. Deghelo al Conte. El Telereto? Al Conte. a Lucieta.
Il Co. Signora, chiameremo...
Lug. Caro Conte,
     Tegnì mo sto Capelo, che me giusta.
     dà il Cappello al Conte.

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Il Co. Ma Signora...
mostrando l’imbarazzo di tanta roba.
Lug. Andè là che sè ‘l gran Aseno.
ripiglia il Cappello.
     Andèmo. va avanti.
Luc. (Mo che Scene da Comedia!) da se.
Il Co. A ragion la Signora mi chiam’asino.
     Amore m’à cambiato in un Sommaro!
partano tutti.



Fine dell’Atto Primo.
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