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Il Mondonuovo

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Qualità del testo: sto testo el xe stà trascrito e rileto.
Il Mondonovo
XVIII secolo

 Edission original:   

Collezione delle migliori opere scritte in dialetto veneziano, Volume nono: Scherzi poetici di Carlo Goldoni, a cura de Bartolommeo Gamba, Venezia, al negozio di libri all'Apollo, dalla Tipografia di Alvisopoli, 1817

 Fonte:

Indice:Collezione delle migliori opere scritte in dialetto veneziano 9.djvu

Edission e fonte ▼
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IL MONDONUOVO


OTTAVE


PER VESTIZIONE


DI UNA MONACA BALBI

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Un certo Pasqualin vecchio onorato,
     Di casa Balbi servitore antico,
     Gondoliere dal tempo un po' fiaccato
     Ma bene in gamba, e del buon vino amico,
     Mentre era al Zante il suo padrone andato,
     (Sendo dell'ozio capital nemico)
     Sovente andava con allegre ciglia
     Del Cavaliere a visitar la figlia.

Stava la nobil giovane rinchiusa
     Nel Chiostro delle Vergini famoso,
     Dove restar dovea, siccome si usa,
     Finchè umano scegliesse o divin Sposo:
     La brama nel suo cor tenea socchiusa
     Per disvelarla al genitor pietoso;
     Ma il perspicace gondolier canuto,
     Ch'ella Monaca andava ha preveduto.

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E mentre anch'egli il suo signore aspetta
     Che ritorni alla patria dal Levante,
     Per divertir la santa giovanetta
     E le amabili sue compagne sante,
     Forma un'industriosa macchinetta,
     Che mostra all'occhio maraviglie tante,
     Ed in virtù degli ottici cristalli
     Anche le mosche fa parer cavalli.

Di tai lavori ne veggiam sovente
     Moltiplicar dagl'inventori in Piazza,
     E quand'è il carnoval corre la gente
     Ad essi intorno, e per vederli impazza.
     Suonar tamburi e schiamazzar si sente,
     E con un soldo si trastulla e guazza,
     E si vedon battaglie e ambasciadori,
     E regate e regine e imperatori.

Queste macchine, dette volgarmente
     Il Mondonovo, mostran dell'ingegno,
     E il bravo Pasqualin, ch'uomo è di mente,
     Una farne ancor ei preso ha l'impegno.
     Un giorno il galantuom segretamente
     Di veder l'opra sua mi fece degno
     In cantina, noi due soli soletti,
     Fra barili, fra tazze e boccaletti.

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Questo (disse il buon uom) questo, paron,
     Xe un laorier che ò fato de matina,
     Per far un puoco de conservazion
     In Parlatorio co la Paroncina.
     Ma perchè go piaser de parer bon
     Voràve che ghe dessi un'ochiadina,
     E co avè visto, che disessi un puoco,
     Se merito del bravo o de l'aloco.


Sì, caro Pasqualin, ben volontieri
     Lo vedrò (gli rispondo), e di buon cuore
     Vi dirò schiettamente i miei pensieri,
     Perchè vorrei che vi faceste onore.
     Prende un fiasco alla mano e due bicchieri,
     E presentami un vin d'aureo colore,
     Dicendo: Questo qua, Paron mio caro,
     Da la tosse el defende e dal cataro.

E vòi che tra de nu sel cocolemo
     Fina l'ultima giozza, e alegramente,
     Da Sanzuane, vòi che se godemo,
     Basta che mia mugier no sapia gnente.
     A la salute del Paron, bevemo:
     Benedeto sto vin dolce e racente.

     Prima ch'i' avessi il mio bicchier vuotato;
     Tutto il fiasco da sè si è tracannato.

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Bevuto il suo caffè da me si parte
     E si accosta alla macchina quadrata;
     Separa alcuni fili e li comparte,
     Ed apre un finestrin sulla facciata;
     Io m'accosto a guardar da quella parte,
     E veggo una distanza smisurata,
     E parmi di sentir di qua e di là
     Il tamburo suonar tarapatà.

E sento a dir dal bravo Pasqualin:
     Vederano da la prima veduta
     Amor, che xe vestìo da fantolin
     Al trotolo ziogar con una puta;
     Ma ela, che no gh'àno sto morbin,
     Se tira da una banda, e no se buta.
     Amor ghe dise: Premi, vita mia,
     E la puta stalisse, e fuze via.

E vederano abiti e diamanti,
     E un monte de ducati e de zechini,
     E vederano i cavalieri amanti
     Che fano i ganimedi e i paregini,
     E questi sono tuti quanti incanti
     Che fano a la dongela i diavolini;
     Vederano che lei si fa la croce
     E tuti quanti scampa via veloce.

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Osservano, signor, da quela banda
     Se forma un belitissimo bancheto;
     D'ogni grazia de Dio, d'ogni vivanda
     Ghe parechiano el megio e 'l più perfeto.
     Dise quel camerier: se la comanda,
     Questo è vin de Vicenza neto e schieto;
     Quando el vin de Vicenza è recusato,
     Bisogna dir che la sia santa afato.


Vardano sta dongela benedìa
     Che desprezia sto mondo, e no ghe bada.
     Vardano che deboto scampa via.
     Tiritopete zò: Dov'ela andada?
     Vardano che la tola xe sparìa.
     Osserverano la scena scambiada.
     Notano la prestezza. In t'un momento
     Vardano che la puta xe in Convento.


Osservano el famoso monistier
     Che sono de le Vergini chiamao,
     Dove sia zentildona con piaser
     S'à arlevà, e xe tornada da recao.
     Notano la grandezza e 'l bel veder
     De quel gran orto che va fin là in cao.
     Vardano quele Cele e 'l Refetorio,
     E la Chiesa e la Porta e 'l Parlatorio.

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Tuto xe belonazzo, ma i m'à dito
     Che una Caneva gh'è superbonazza
     Dove che ghe xe drento de pulito,
     Boca che vustu, e che in tel vin se sguazza.
     Osserva adesso el Campaniel fornito
     Da pute che se gode e se sbabazza.
     Osservano lassuso quele do,
     Che din don din, din dan, fa campanò.


Fano gran festa perchè son tornala
     La compagna che avevano smarìa,
     Come giusto el pastor quando à trovata
     La piegorela ch'era andada via.
     Vedano più de tute consolata
     La Pasqualiga ch'è so amia, zia,
     Munega veramente religiosa,
     Dama de tuto ponto e vertudiosa.


Confesso che un piacer si raro e strano
     Ogni maggior divertimento avanza.
     Bello è sentir col barbaro toscano
     L'idioma Venezian far mescolanza;
     Bellissimo è il goder di mano in mano
     Piantata una solenne sconcordanza,
     E sentir a chiamar la vergin pia:
     La piegorela che gera smarìa.

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Mosse i fili il buon vecchio, e a dir riprese:
     Vardano adesso de le cosse tante.
     Se cambiano la scena, e quel paese
     Che vederano è l'Isola del Zante.
     Vardano là quel Cavalier cortese
     Mandà da la Republica in Levante.
     Vestìo de rosso, oh come ch'el par bon
     Zelenza Nicoleto mio paron!

Vederano là suso in quel Castelo
     De dì, de note so Zelenza atento;
     E vederano la giustizia e 'l zelo,
     Come l'à sostenudo el Regimento.
     Vardano i Greghi che confessa in elo
     Gran saver, gran dolcezza e gran talento.
     Vardano adesso quando ch'el va via
     Come pianzono tuti in compagnia.

L'Isola se desfanta, e vederano
     La cità de Venezia e 'l Lazareto,
     Vardano quante gondole che vano
     A darghe el ben tornao con vero afeto.
     Adesso a quel balcon osserverano
     Pasqualin presentarse con respeto,
     E sconzurarlo ch'el lo torna a tor
     In gondola a servir fina ch'el muor.

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Vardano el Cavalier che ghe respose:
     So che un dì te piaseva a butar su.
     Vardano Pasqualin che ghe propose:
     Zelenza benedia, no bevo più.

     Indi rivolto a me: No go più ose,
     Dissemi, e seguitar no posso più
     A mostrarve, paron, el Mondonovo
     Se no me torno a rinfrescar da niovo.


E in così dir prendendo un boccaletto,
     Cava la spina ad un barile alzato,
     E l'empie, e si ristora il poveretto,
     E al solito lo bee tutto in un fiato.
     Questo non si può dir vizio o difetto,
     È la necessità che l'ha spronato.
     Ei patisce una sete aspra, bestiale,
     E l'acqua non gli piace e gli fa male.

Dopo un breve ristoro a dir ritorna:
     Vedano, vederano, osserverano
     De casa Balbi la famegia adorna:
     Tuti a lodar no basteràve un ano!
     Quela dama, che fa, che va, che torna,
     Che opera sempre e ferma mai no stano,
     La xe Zelenza Beta mia parona,
     Che tra le done merita corona.

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Oh che bona mugier! mo co' amorosa
     Che la xe per i fioi, per la so casa!
     Qualche volta co mì la xe stizzosa,
     Ma se la ga rason convien che tasa.
     Angarana la xe, stirpe famosa,
     E la zente da ben xe persuasa,
     Che sta nobil Famegia e de bon cuor

     Merita ogni grandezza, ogni splendor.

Vardano là quel Puto zentilomo
     Che à messo vesta, Zelenza Tomaso,
     El xe zovene assae ma el ga de l'omo,
     D'ogni fior de bontà lui sono el vaso;
     Belo, garbato e dolce co' fa un pomo;
     Che sa, che intende, che no parla a caso,
     E che a Consegio se farano onore,
     E darano alegrezza al Genitore.

Vardano i altri cinque so fradeli,
     (Missier Domenedio li benediga!)
     Osservano l'amor che tra de eli
     Fa che la pase sia, de tuti amiga.
     Per grazia del Signor no i xe de queli
     Che fa sussuro e le famegie intriga,
     Che nassa desunion no gh'è pericolo;
     Tuti boni dal grando fina al picolo.

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Sier Orazio, che ga disisset'ani,
     Xe el più bon puto che ghe sia a sto mondo;
     L'ama la quiete e nol se tol afani,
     Casalin, facendin, lesto e giocondo.
     Anca sier Marco, che ga manco ani,
     Xe un puto de bon genio e de bon fondo,
     E che col tempo mostrerà anca elo,
     Che àno bon intendachio e bon cervelo.


Suonar odo in un tratto una trombetta,
     E sparir veggio la goduta scena,
     E un'ampia Chiesa nella macchinetta
     Veggio apparir di popolo ripiena.
     Mi sorprende; mi piace, e mi diletta
     D'un palco musical la vista amena,
     Io dico a Pasqualin: Bravo davvero,
     Lodo l'esecuzion, lodo il pensiero.

Veggio da un lato una gentil damina,
     E sento il vecchiarel che si ragiona:
     Osservano Zenenza Contarina
     Che un anzolo la par proprio in persona.
     Vardano con che grazia la camina;
     Tuti la varda, tuti la minzona;
     Ecola inzenochiada da una banda,
     E i Preti che ghe canta Messa granda.

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Osservano a sonar viole e violini,
     Osservano i sberlefi dei cantanti,
     E vardano quei cari motesini
     Dei zendaeti che se fica avanti.
     Vardano per la Chiesa i lecardini
     Che ga paura de imbratarse i vanti;
     Vardano la Parona che compida,
     Le zentildone al Parlatorio invida.

Vardano adesso el Parlatorio pien
     De dame e cavalieri a marteleto,
     E 'l rinfresco badial che va e che vien
     Dove tanti golosi fa bancheto.
     Vardano adesso Pasqualin che tien
     Anca elo in manina el so sorbeto;
     No miga de naranza o de limon
     Ma de sugo de ùa sincero e bon.

Vardano quel scrocone che à bevù
     Sete sorbeti e cinque chiocolate.
     In quel cantone osservano colù
     Che à impenìo le scarsele, e se la bate.
     Queste ch'è qua, per dirla tra de nu,
     Se ghe dise de posta baronate,
     Se el fusse vin compatirìa l'usanza;
     Ma impenirse de aqua? oh che increanza!

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Tira un nuovo spaghetto, e si tramuta
     La scena, e grida il bravo Pasqualin:
     Osserverano l'ultima veduta,
     De la Fonzione vederano el fin.
     Vardano adesso che a la santa Puta
     Che tagiano i cavei, no per morbin,
     Ma col Tasso dirò:
Perchè le indegne
     Sprezza di servitù misere insegne.

Osservano che adesso i la despogia
     Dei abiti de sea, d'oro e d'arzento.
     Vardano adesso che sta cara zogia
     Da Munega se mete el vestimento.
     Benedeta da Dio! de bona vogia
     La saluda i parenti, e la va drento,
     Dove la ga da star fin che la muor....
     Oh Dio! no posso più me crepa el cuor.


Sento che più non parla; alzo lo sguardo,
     Curioso di saper se avea finito,
     E veggio lagrimante il pio vecchiardo,
     E che il pianto il parlar gli avea impedito.
     Dicogli: come? un uom forte e gagliardo
     Per sì poco si perde ed è avvilito?
     Morta non è l'amabile donzella,
     Ma vive in Dio più vigorosa e bella.

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Balbettando risponde il gondoliere,
     Interrotto dal pianto e dal singhiozzo:
     Ah sior sì, ste rason xe sante e vere
     Ma no le basta a consolarme un giozzo,
     E ste lagreme mie le xe sincere,
     E vogio per dolor farghene un pozzo,
     Perchè xe vero che l'è viva e sana,
     Ma per sempre da nu la sta lontana.

E dasseno, paron, me vien la stizza
     Co penso che l'è andada in monistier.
     Se l'avesse volsuo farse novizza,
     Chi sa che mi no fusse el so provier?
     Che gnancora no son vechio panizza,
     E so far, co va fato, el mio mistier.
     E in t'un gropo a mostrar la mia bravura,
     Quando son a dezun no go paura.

Ma pazenzia per mì, che a mantegnirme
     Fin che vivo el paron ga da pensar;
     Ma de pianzer, per dia, no so tegnirme
     Co penso che sta Puta à da penar;
     Che no basta, sior no, che i vegna a dirme:
     L'à da esser contenta e giubilar.
     Dal mondo al monistier gh'è diferenza,
     L'à da far sacrifizi e penitenza.

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Coro, cela, orazion e disciplina;
     Obedienza, fadighe e povertà;
     Oh povera Zelenza Contarina!
     La me despiase e la me fa pecà;
     Propriamente me sento stamatina
     El cuor, co se sol dir, tanto ingropà
     Che se no togo un poco di ristoro
     Da la desperazion sento che muoro.


E in così dir ritorna al barilotto,
     E beve, e si conforta, il vecchiarello.
     Vuol ch'io pur beva, e mi offerisce il gotto,
     Soggiungendo che il vin fa buon cervello.
     Lo ringrazio di core; e poi di botto
     Lo procuro istruir sopra di quello
     Che non intende, o non conosce, o crede,
     Col lume del Vangelo e della Fede.

Voi (dico) Pasqualin, voi, gondoliere,
     Non avete con metodo studiato,
     Ma la macchina vostra dà a vedere
     Che una talpa, un babbeo non siete nato:
     Dunque mi proverò farvi sapere,
     Che dal vostro pensier siete ingannato,
     Se vi pensate che la padroncina
     Più felice non sia d'una regina.

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Figuratevi pur che fosse sposa
     D'un ricco cavalier, bello e garbato,
     E che a lei non mancasse alcuna cosa
     Per rendere invidiabile il suo stato;
     Credete voi che qualche spina ascosa
     Non avesse a provar dei mondo ingrato?
     Voi siete servitor ma, lo sapete,
     E i sposi d'oggidì li conoscete.

Corre oggi giorno una moderna usanza
     Che chiamasi servir semplicemente,
     Ma questa servitù talor si avanza
     E diviene un po' troppo confidente.
     Se la sposa si adatta in consonanza,
     Suol far anch'essa mormorar la gente;
     E se all'uso comun non aderisce,
     Soffre, piange, si lagna e ci patisce.

Dato ch'ella incontrasse un matrimonio
     Con vera pace e col timor di Dio,
     Di cui si può vedere un testimonio
     Fra la vostra padrona e il padron mio,
     Dove della discordia il rio demonio,
     Nè il geloso martel giammai s'udìo,
     Non crediate che avesse il cuor giocondo,
     Che un vero ben non può godersi al mondo.

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Se non sapete di filosofia,
     Filosofo vi faccio in un momento.
     Perchè felice in questa vita un sia,
     Basta che del suo stato ei sia contento;
     E tal felicità creda si dia
     Più facile fra i muri d'un Convento;
     Perchè dall'occasion nascon le voglie,
     E mancando il poter crescon le doglie.

Ma teologo ancora i' voglio farvi,
     Giacchè avete buon senno e buon cervello.
     Pasqualin caro, posso assicurarvi
     Che l'amore di Dio fa tutto bello.
     Se poteste voi pure immonacarvi,
     Credetemi, vel giuro da fratello,
     Che ripieno ancor voi d'amor divino
     Sareste un altro, e lasciereste il vino.

Tenero Pasqualin si batte il petto,
     Dice: Mea culpa, e mostrasi pentito
     D'aver detto finor quello che ha detto
     Del santo monistero, inavvertito.
     Cerco d'incoraggire il poveretto,
     E dicogli: su via vediam finito
     Della macchina vostra il bel lavoro,
     Che, a dir la verità, vale un tesoro.

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Ei dice: Vederano la dongela
     Co le muneghe aliegra in compagnìa,
     E che tute ghe dicono sorela,
     E la togono in mezo e vano via.
     Vardano che la va in te la so cela,
     E per adesso l'opera è fenìa,
     Prego che chi la vede no la sprezza:
     Pace con questo, sanità e alegrezza.


Replico al gondolier: L'arte e l'ingegno
     Della macchina vostra io lodo e approvo;
     E non mi par della damina indegno
     Questo vostro bizzarro Mondonovo:
     Anzi adesso con voi prendo l'impegno,
     (Se stanco un giorno di compor mi trovo)
     Che andiamo per il mondo, voi, ed io,
     Mostrando in piazza il Mondonovo. Addio.

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