Il dialetto e la lingua/Piccolo Dizionario Vernàcolo Veronese
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Il dialetto e la lingua, Antologia vernacola, a cura de Vittorio Fontana, Verona, M. Bettinelli, 1924 |
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« Il popolo (sono parole di Giacomo Leopardi) non potrà mai gustare interamente se non quella letteratura la quale parli il suo linguaggio nativo, cioè il suo dialetto; così non può essere schiettamente popolare, se non la letteratura o, più ristrettamente, la poesia e la prosa creata e sentita dal popolo ».
A questo Dizionarietto, ove si raccolgono voci e frasi dagli esempi offerti alla conoscenza e allo studio del nostro dialetto, è utile una premessa.
Non vogliamo entrare in questioni filologiche, ardue qui, e fuori dalla natura del presente Libro; ma, per dare al Maestro delle classi superiori elementari e medie di primo grado, modo di spiegazione di vocaboli (ed essi medesimi tant’altri consimili possono trovarne ad innamorare l’alunno nello studio della lingua) rechiamo i seguenti: 1. vernácolo 2. folk-lore, 3. posta.
1°) Vernácolo. È bene spiegare, a chi non sa, la parola vernácolo che corrisponde a dialetto. Presso i latini «verna» era il servo, schiavo nato in casa, donde l’aggettivo vernaculus per significare domestico, indigeno, nostrale; loquela vernacula era il parlar familiare, semplice, quale si parla fra le pareti domestiche, e così sostantivato in vernaculum: il linguaggio semplice non forbito del popolo in genere, ed era forse parola più giusta di quella, venuta in uso poi, di dialetto.
2°) Folklore è parola coniata dall'inglese William Toms nel 1846, composta dai due termini folk (popolo) e lore parola intraducibile che significa erudizione; ed unito a folk: «studio del popolo». Ora con la voce folklore, che è divenuta di uso generale si indica quel ramo della letteratura che tratta delle qualità peculiari di un dato popolo: cioè tradizioni, proverbi, leggende, fiabe, usi, costumi, linguaggi e idiomi speciali, o più sinteticamente riguarda lo studio di quanto sopravvive nel tempo moderno delle usanze, della vita e dell’anima del tempo passato. Tali studi corrispondono a quelli che noi più propriamente chiameremmo di demopsicologia, e sono interessanti ed importanti per la sicura conoscenza della vita e dello spirito d’un popolo; studi che oggi hanno cultori valenti e dottissimi per ogni regione d’Italia. Il folklorismo Veronese può dare ad essi un contributo non indifferente.
3°) Posta, participio passato del verbo latino pónere ― porre, collocare; quindi pósitsu (posto), nel genere femminile pósita. Nella bassa latinità noi abbiamo dagli scrittori indicata «posta» (parola contratta di pósita) luogo assegnato per fermarsi, per attendere ed è la «stazione»; più innanzi nelle forme dialettali troviamo che la parola «posta» è particolarmente usata per indicare una stazione di cavalli-posta, da distanza a distanza, pel servizio dei viaggiatori, quindi «fermata». Così è avvenuto che, consegnandosi e ricevendosi in queste stazioni o fermate le lettere e corrispondenze, il linguaggio comune accettò la parola Posta per l'Ufficio delle lettere, che molte volte rimasero «ferme in posta» cioè fermate lì per la consegna al destinatario.
Cristoforo Pasqualigo, facendo cenno del vernacolo Veronese, scriveva: «Il dialetto di Verona offre notevoli differenze con quello delle altre province venete.... Donde queste differenze? Io credo che siano prodotte dal contatto di Verona con la provincia di Trento e delle sue valli ladine...; perchè da tempi remoti fino al 1866 Verona fu l’emporio commerciale delle genti alemanne, del Tirolo e del Trentino. Inoltre da tutto il Trentino scendevano volentieri nel dolce clima della bella Verona i commercianti, gli artigiani, e specialmente le donne, quali domestiche, cameriere, balie e cuoche e cuochi, terrazzieri, lavoranti o laorenti, (c’è perfino un proverbio per loro), che poi quasi tutti rimanevano in Verona. È naturale che vi importassero qualche voce dei paesi nativi, e che queste abbiano prodotte le diversità dialettali sopradette» 1. Del Veronese il Pasqualigo reca un saggio di parecchie voci, come àngio (che è il latino anguis (biscia); bassìsego: altalena; bampadora: cateratta, chiusura; aldegarse: ardire, osare; cagnár e la frase i i à cagnadi (li hanno colti) da Can della scala, il giornale umoristico; cosadura: ammaccatura; intambusà: rimpiattate: sambra: comitiva; signápola: pipistrello, nóttola; sorir, sorire: indispettirsi; tindonàr: bighellonare; tortór: imbuto; trozo (in alcuni luoghi trogo) sentiero, troso per giro, dal latino terere, tritum ecc. Anche il Pasqualigo lamenta la scarsità o la mancanza dei Vocabolari dei dialetti, augurandone uno completo che sarebbe importante quanto quello della lingua nazionale italiana. V’è bensì il Piccolo Dizionario del dialetto moderno (Verona, Franchini 1900), ma è insufficiente, mancando pure della 2° parte italiano-veronese. Qui son citati «Vocabolari», veramente tentativi, che si conservano manoscritti nella nostra Biblioteca Comunale; ma anch’essi (volendoli dar alle stampe) rimarrebbero quanto mai antiquati. Un tentativo di Vocabolario veronese-toscano, in men che 90 pagine, fu fatto da Gaetano Angeli, ma porta la data del 1821! L'ab. Angeli, professore al Collegio delle fanciulle, s’avvide che nella scuola gran mancanza era lo studio parallelo del dialetto alla lingua e si provò «a a sopperirvi col suo Saggio». Tra i manoscritti la migliore raccolta rimane quella di E. S. Righi. Concludendo, il vero Dizionario Veronese rimane ancora un desiderio.
A — A masòn, francesismo (maison): a casa, «Le galine le va masòn»: le galline vanno al pollaio, alla stía; le pássare le va a masòn: le passere vanno al loro nido.
Ancò: oggi.
Andar de seda: andare a gonfie vele.
Agro: agro, (in genere) posposto a stufo, p. es. stufo agro vale: stanco, ristucco.
Arénte: vicino. Nell'espressione di rimprovero, Arénte che 'l t’à pagado ’l viajo!: Dopo che (in compenso che) t’ha pagato il viaggio!
Arfiada: respiro, da arfio: fiato.
Avesa, nelle frasi andàr a Avesa; andar alla malora: èsar a Avesa: esser al verde, senza quattrini.
'Arzimo d’úa: grappolo, raspo, racimolo d'uva; l’è un arzimo scapà dai oci del vindemiator: cosa non vista, non palese e sfuggita all’occhio.
B — Bagolina: bacchetta, bastoncino di canna flessibile.
Buganse: geloni (vedi avanti).
Bruscáda: manata, butár coriandoli a bruscade: gettarli a manate.
Biancaria incolada: biancheria stirata; (colarina è la stiratrice).
Baúco: scimunito, sciocco, minchione; baucár: indugiarsi senza ragioni o causa, far lo sciocco.
Bóro: un soldo, quattrino. No averghe un boro: non avere il becco d'un quattrino (vedi: schéo).
Bátola o sbátola, e sbatolár: ciarlare; sbatolón: ciarlone, el gh'à una sbátola: ha pronto e sciolto lo scilinguagnolo, in senso non buono.
Belíne, usato solo nel plur.: balocchi.
Bóssolo: capannello: métarse ’n bóssolo, far bósolo: far cerchio. Notissimo è il giuoco del bimbi, che si mettono in cerchio, cantando: Bóssolo, bóssolo canarin..., altri dicono: Bóssolo bóssolo, San Martin....
Bon (dal): sul serio, in verità. Far dal bon, fare sul serio, di buon proposito, senza scherzi.
Barbissól (da barba): mento.
Baveséla: venticello, da bava, bava d'aria: filo d'aria.
Baracár o far baráca: godersela, gozzovigliare.
Bogòn, bogonèla: chiocciola; andàr a bogoni: perdere il tempo in frivolezze.
Báo (baco): far bao séte: dal giuoco fanciullesco passato a significare non esser sufficente, aver paura senza ragione: dicesi essere come un nulla.
Bábio: viso; el puteléto 'l g’à un bel babio!: ha un bel visino!
Bigolo: bigoli sono i cosidetti maccheroni o spaghetti. Curiose le frasi Andàr a magnar bìgoli e fasoi, per: andare in prigione. Farghe la ponta ai bigoli: cercare il pel nell'uovo; Magnarghe i bigoli su la testa a uno, mangiar la pappa in testa, o anche esser più alto d'altra persona.
Bugansa più usato al plurale: buganse, i geloni; Dotór da buganse: medico da poco, dottor poco abile.
Bandiera, così chiamasi dai fanciulli il cervo volante, o l'aquilone, o anche il drago volante.
C — Crapa o crépa: detto scherzosamente per testa, specie per cranio nudo; Crépa pelada, crépa da morto: teschio; el gà la crepa dura: è un testone, non capisce.
Camufár: camuffare, camufarse: trasvestirsi; camufar qualchedun: truffarlo, ingannarlo.
Capitél: cappelletta di divozicne.
Carzavér, voce alquanto disusata; Calsarér, calsaler (veneto caligár): calzolaio.
Capéla: errore, far 'na capèla: cadere in errore.
Cagnára: inezia, gran baccano (come quel dei cani) per nulla: i fa cagnara: far baccano, litigano.
Cótola: gonnella, sottana: cótola da soto; cótola è la sopraveste, cotola da soto è precisamente la sottana.
Cáneva: cantina; èsar, andar in cáneva; far cáneva, far il vino nella propria cantina.
Cana: cappello a cilindro, tuba: l'è ’na cana! detto di persona... eccezionale!
Catár: trovare; l'à catádo: ha trovato.
Cimpàr: bete, trincare, cioncare.
Cocúcia, scherzosamente per testa; Zugo de le cocúcie, sorta di giucco da ragazzi; con pegni.
Cunél: coniglio: el logo dei cunéi: conigliera.
Ciucio (termine fanciullesco): gusto, piacere. No so che ciucio che le ghe trovi!: non so che gusto tu ci abbia! No gh’è ciucio: non c’è gusto, non c'è sugo, sodisfazione.
Croár: cascare, specie detto di frutti maturi troppo, o bacati. «Croàr dal sôno»: cascar dal sonno; croár zo come un pero marso: spiattellare alla prima ogni cosa, che dovrebbe tenersi celata.
D ― Desío: un desío: una quantità; ghe n'è un desío: ce n’è una strage (far un desío).
Dasiéto: dimin. di adagio; andàr a dasiéto: camminar piano, far le cose con comodo.
Debòto: quasi; ho debòto finì: a momenti ho finito.
Desmissiár: destare, svegliare.
Drìo: dietro; darghe drìo a un laòro: lavorar presto per finire un lavoro; darghe drìo a uno, dir dietro, mormorare alle spalle d'alcuno.
Durèl, bruzzino, il ventricolo degli uccelletti.
E — Èsar su ’l caval del mato: essere nella piena giovinezza, nell’età dei capricci e dicesi della gioventù scapigliata.
Èmaus (dalla storia sacra) nella frase Andar in Èmaus: dimenticarsi, distrarsi.
Estro: estro, ghiribizzo; èsar de cativo estro: essere o stare di mala voglia: el me l’à dito con un çerto estro!: me l’à detto con una cert’aria! con un certo piglio!
G — Goto: bicchiere.
Garíssole: solletico.
Geníco: freddo intenso.
Gnanca: neanche, nemmeno.
Gomíssiel: gomitolo
G’ónti?: ho io; g’ónti mi spaghéto: ho io forse paura?
Gnòla, piagnistéo (specie dei ragazzi) anche per tiritèra, cantilena lunga e nojosa.
Guàso, guàsa: padrino, madrina (chi tiene a battesimo o a cresima): compare, comare.
I — Insemenido: intontito; insemenìo: sciocco, ignorante, balordo; ma in tono meno rude usasi il generico baùco.
Imbrocar: indovinare, el l’à imbrocada: l’ha azzeccata, ha cólto nel segno; no 'l ghe ne imbróca una: non ne coglie, azzécca una.
Intivàr ne la macia: dare nel segno.
Incoconárse: balbettare, tartagliarsi.
Ingambàrse (ingambaraise): inciamparsi.
Intrigòso agg.: difficile, malagevole.
Imbisàr: intorbidare; ésar imbisà: esser di malumore. Imbisarse (del tempo) rannuvolarsi, annebbiarsi.
L — Lénsa: acquazzone, pioggia dirotta, a catinelle; è usato specialmente nella forma esclamativa: Ela ’na lénsa!: che acqua, che diluvio!
Logo: el logo, quella stanza che non serve da cucina, nè per camere diverse: ma più di camera libera. Logo ha poi significato di: luogo, podere, paese; ésar del logo, esser del luogo, del paese.
Luamàr: létamaio, immondezzaio: luame: letame, concíme; luamaról (più in uso spasín) spazzaturaio.
Lussia (S.): robe da Santa Lussia; cose da poco, o di poco valore, da banchetto di rivendúgliolo.
M — Mota: quantità; ’na mota de gente: una quantità di gente, una folla; (mota: molta, come nel dialetti emiliani: mondi, di mondi), ed in Toscana «ce n'eran di molti».
Massa: troppo; ghe n’è massa: c’è di troppo; ghe ne vol massa, ne occorre molto, tanto.
Mocolàr (mócolo): bestemmiare, dire male parole.
Montesei: monticelli.
Molàr: lasciare; molar ’na papina scherzosamente: dare uno schiaffo.
Monàda: cosa da niente, di nessuna importanza.
Musso: somaro; andàr al musso: andar alla malora.
Mucci! esclamazione per raccomandare di state zitti o di tacere un segreto. Dicesi anche: Buci! mosca! zito e mosca!
Mura de quarei sentadi: mura di mattoni sovrapposti, sopramattone.
Musina: salvadanaio, far musína: metter da parte.
Motafáso: nella frase a motafáso: a catafascio. L’à butà tuto a motafáso: ha buttato, cacciato tutto alla rinfusa.
Mostro: monello di strada, biricchino.
Michéta: pagnotta; es.; ’na michèta de pan: un pezzo di pane (forma speciale del pane), da mica piccola parte.
Mancipàr: sciupare, guastare, rovinare.
O — Obitu, òbito, curiosa parola derivata dal latino, usatissima dal popolo per dire: funerale, trasporto d'una salma, mortorio.
Orsól: orzaiuolo.
Organsin: furbacchione (seta di quella fina reale).
P — Pétolo, petolóto, pétola, petolón, dicesi di marmocchio, bamboccio ecc. Èsar o restár o lassár ne le pétole: essere, rimanere, lasciare nelle péste, nell'imbroglio.
Ponsár o sponsar: riposare.
Pocio (è il più generico del dial. ven. tocio) sugo, intingolo, fanghiglia. Pociàr: intingere, bagnare il pane o la polenta nel sugo (succo); il bimbo che pocia la penna; anche, guazzare nell'acqua fangosa ecc.
Péar: pepe, anche pévar, e nella campagna abbreviato: pêr; pearà: pepato.
Piàsar, piásso: piacere, piaciuto.
Pingolòn: a pingolón: ciondoloni.
Pontesél: terrazzo, terrazzino.
Potácio: guazzabuglio.
Pressia: fretta.
Puína: una specie di ricotta.
Puóto: fantoccio.
Pajón: pagliericcio; l’a brusà ’l pajón, ha mancato di parola.
Paca, botta, percossa, bussa; ciapàr de le pache: pigliarle buone.
Progno: torrente in gen. asciutto, il quale serve pure di strada, di viottolo stretto e sassoso specie in montagna (Val di Progno, Selva di Progno).
Putina: bambina. Putèlo, putèla, putelèto; putelòn (maschile, femminile, diminutivo e accrescitivo).
Putelàda: ragazzata, più raro putelàme per significare la ragazzaglia.
R — Reatín: reattino o più comun. lo scricciolo, uccellino di siepe, assai piccolo (passerotto).
Recia: orecchio; la frase: star con le réce a penél: star con l'orecchio attento, all’erta; supiàr ne le rece: soffiar nell’orecchio, sussurrare, insinuare nell’orecchio, un sospetto, un’accusa; véndar col fior in recia: vender caro, tener alto il prezzo della merce; una recia d'uva: un racimolo d'uva.
Ropetár: dimenarsi, intrigar la casa; a ropetòn (a rotoli) andar male.
Rusár: ronzare, borbottare; si dice anche del «far le fusa» proprio del gatto o d'altro animale domestico.
Rosaria (deriv. da rosario) come litanía; l'è 'na litania, è una storia lunga. Rosárie: fiabe, fole. Avèrghe le rosarie: trovare a ridire, piatìre, trovare ostacoli anche ove non sono.
Ruda: ruota. Ruda ruda, quale piena, quale uda? — è giuoco fanciullesco: Gira, gira ruota, - quale è piena e quale è vuota?
S — Sgolár: volare; el sgóla via: vola via.
Sparàr: tralasciare, fare a meno di; spara de ’ndarghe, risparmia, fa a meno d’andarci.
Sgnacár (el ghe l'à sgnacado); sgnacár è gettare con forza, scaraventare, stiaffare.
Simitón (da simiotàr, come fan le scimmie) i simitón sono i versacci, le smorfie.
Sentárse: sedersi.
Sempiada (da scempio): scempiaggine, sciocchezza.
Scónto: nascosto; scondiróto: sotterfugio, nascondiglio; scóndar; nascondere; andár par le sconte: andar per le vie poco frequentate. Scondón usato nel modo avverbiale de scondòn: di nascosto, all’insaputa.
Sbriso: logoro, dicesi di vestito.
Sfrisár, sfriso: sfiorate, rasentare; sfriso, sarebbe sfregio; in quatro sfrisi: in o con quattro freghi.
Sgrìsolo più usato nel plur. sgrìsoli: brividi; me sento végnar i sgrìsoli: mi sento scorrere i brividi, mi si agghiaccia il sangue. Sgrisolár sgrisolón.
Sbisegár: rovistare, frugare; sbiseghin è proprio il fanciullo ricercatore sagace, corrisp. all’it.: frugolo, frugolino.
Siolòto: fischietto (giuoco dei bambini); zuffolo.
Spegasso: sgorbio.
Stenegár: ammorbare.
Stróo per: bujo, ma è voce contadinesca; più usato come aggettivo; note stroa: notte buia.
Spandar: spandere, versare, rovesciare; spanto: sparso, rado; vaso spanto: vaso molto aperto, allargato alla bocca (sarebbe il boccale).
Schéo: centesimo; no ’l val un schéo sbuso: non vale un soldo bucato, non val un bajocco, niente.
Sésa: siepe; è più spesso adoperato al plur.: le sése.
Spiansisár: lampeggiare; spiansìso: lampo, baleno; savèr de spiansìso: saper una cosa di rimbalzo, come per sentita dire.
Smorzar: spegnere.
Sbrissiàr: sdrucciolare.
Slépa; fetta; ’na slépa de polenta: una grossa fetta di polenta.
Slapàr: divorare, specialm. del cibo, ingoiarlo in fretta, mangiar molto e ingordamente.
Sbatociar (da batócio) battere il martello, il batocchio, così lo sbatter e il suonar a discesa delle campane.
Slusàr: lucicchio.
Sberla: scappaccione, schiaffo.
Strasse: cencio, straccio; ridur o andar come una strassa: ridursi come un cencio: strassár: logorare, sciupare; strassarìa: ciarpa, ciarpame, robaccia.
Sginsala: zanzara.
Signàpola: pipistrello, nottola; accres. signapoloni.
Scaùia: generalm. usato nel plurale scaùie, spazzatura, immondizia. Figuratamente di persona: uomo di stento. Quel da le scaùie è lo spazzaturaio.
T — Torcolàr: spremere; torcolà: spremuto col torchio (torchialo); tòrcolo: frantoio, ordigno, per spremere le olive; torcolòto: uomo che, per mestiere, fa e trasporta vino od altro. Figurativamente; roba torcolada: stentata, stiracchiata, tirata coi denti; vino torcolà, vino ben spremuto, stretto al torchio, ottimo.
Tabarin (da tabàr, mantello); farghe ’l tabarin a qualchedun: dir male d’alcuno.
U — Udór: odore tanto in buono che in cattivo senso. Savèr ben udòr, saper di buono, essere una brava persona; però l'à udòr: ha puzzo, tanfo.
’Udár: vuotare; 'udar zo par el seciar: buttare nell'acquaio, mandar a male una cosa.
Usma, fiuto; ciapàr l'usma: pigliar pratica; Usmár: fiutare, frugare, scavizzolare; Usta: fiuto, odorato, cattivo odore, puzza.
Ute nella frase: L'è bela, ma ute soldi stemo mal, è bella ma quanto a denari stiam male.
V — Versór: vómere, aratro.
Vivotár: vivacchiare, campucchiare.
Velada, specie di giacca lunga, vestito d'occasione, una specie di redingote: el va in velada, va ben vestito, di riguardo.
Vinçenso nel detto popolare: La rosaria de sior Vinçenso (la novella, la storia dello Stento) che la dura tanto tempo, che mai no la se destriga, vutu che te la conta o che te la diga.... — L’è la rosaria del sior Vinçenso, per dirla toscanamente: È la canzone dell'uccellino.
Volatera: spolvero. La farina che nel macinare vola via e rimane attaccata ai muri.
Il Maestro può nella Scuola aggiungere quelle parole e frasi ch'egli sa più in uso nel luogo ove insegna; può farle scrivere spiegando la parola e la frase indicandole nel corrispondente italiano.
- Note
- ↑ «La lingua rustica padovana con cenni su alcuni dialetti morti e vivi, e proverbi veneti», raccolti da C. Pasqualigo (Verona, Cabianca 1908). Per i nomi dialettali degli animali e delle piante, rimando agli studi di Adriano Garbini (Verona, Mondadori 1919) sulle antroponimie e omonimie nel campo della zoologia popolare (limitato a specie Veronesi).