Il dialetto e la lingua/Breve saggio di grammatica
Edission original: |
Il dialetto e la lingua, Antologia vernacola, a cura de Vittorio Fontana, Verona, M. Bettinelli, 1924 |
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L’aggettivo possessivo mio, suo, tuo ha in dialetto le tre forme uniche invariate; mé, tó, só. Dicesi: Dáme el me libro (però il possessivo si esprime così: Sto libro l'è mio); Daghe el so pan; La me casa l’è bela.
Passando dal singolare al plurale: quel putèl el pensa sempre ai so libri; Quei putei i pensa sempre ai so libri; e non ai «loro» libri. È da osservare anche la forma «i pensa» equivalente al plurale pensano, usando i verbi di 3ᵃ persona il singolare invece del plurale.
Per la coniugazione del verbo ésar (essere) abbiamo queste forme nel presente; mi son, ti te se’ o si’, lu l’è; noaltri semo, vualtri o vu eri, loro i è; nell'imperfetto mi era, ti te eri, lu l’era, noaltri érimo, vualtri o vu eri, loro i era; e così di seguito per gli altri modi e tempi.
È da notarsi il verbo star unito ad essere. Per esempio; èsar stado in casa, essendo stato malà; ma poi dicesi non stè ésar nojosi; non siate nojosi, ecc. Il dialetto si vale tal volta nel verbo avér per essere. Ad es.: nol se n’à gnanca 'ncorto: non se ne è affatto (neanche) accorto; el m’à parso belo: mi è sembrato bello, ecc.
Per la pronuncia è da avvertire che, in generale (come di tutti i veneti) non esistono consonanti doppie; che poi la z, zeta, in Veronese si riduce, per lo più, uguale ad un s forte (sòcolo = zoccolo) o debole (esempio: in senoción: in ginocchione; sensíva: gengiva) ed il c segnato con la cedille francese ç si pronuncia per s dolce (çerto, çinque) ecc.
Sono da notarsi le forme negative de! modo imperativo; ad esempio no imparàr, non imparare, che si dice anche; no sta imparar; così no crédar, no sta a credar; no credì: non crediate; no stè sentir, non date ascolto (non sentite), non ascoltate. Le forme del participio passato si trovano: imparà o imparado; credù o credudo, sentì o sentido: g’ò sentì dir (opp. g’ò sentido a dir).
Naturalmente qui ci si attiene alla parlata cittadina, non a certe esagerazioni di pronunzia del tutto popolare come téra (terra) che diventa tara, e perfino il nome di Verona che sciattamente dicesi «Varona». Nella città stessa usansi le due forme in ado (stado, andado) e le tronche (andà, stà).
Alla forma del pronome relativo che non corrisponde sempre in dialetto lo stesso valore grammaticale. Perfetta rispondenza si ha quando il che rappresenta il soggetto o l’oggetto (accusativo) nella proposizione. Es.: me piase i omeni che dise sempre la verità: mi piacciono gli uomini che (i quali) dicono ecc.; G’ò da caminar fin a quela casa che te vedi: devo andare fino a quella casa che (la quale) tu vedi. Ma altre volte il che del dialetto deve tradursi in italiano con altre forme del pronome relativo, come: Di cui, a cui, per cui ecc. secondo l’ufficio che fa nella proposizione; ed allora nella frase dialettale, il che si trova spesso accompagnato dalle particelle esplicative ghe e ne, apparentemente pleonastiche, ma in realtà vere rappresentanti del rapporto logico non sufficentemente indicato dal che: Es.: No farò despiasèr a quei che ghe vôi ben: Io non farò dispiacere a quelli ai quali (ovv. cui) io voglio bene. Altro esempio: Questo l’è l’omo, che ti te ghe ne disi mal: Questo è l’uomo del quale (di cui) tu dici male. Mi so la rasòn che i è vegnudi qua: «Io so la ragione per cui (per la quale, onde) sono venuti qui». Si noti il valore del prenome ne che va sempre unito alla particella pronominale ghe, la quale in questo caso non si traduce in italiano: es.: Ghe ne vôi ancora: io ne voglio ancora. Ed importa distinguere i casi nei quali il ghe è pronome e corrisponde a gli, le, loro, da quelli in cui è avverbio e corrisponde a ci o vi. Esempi: Ghe piase sta casa?: Le piace questa casa? — «No lo vedo e no ghe parlo mai: non lo vedo, e non gli parlo mai», — Se i te dise su, no sta badarghe: se ti biasimano, non badarci (non préndertene). — To pare el ne vol ben: tuo padre ci vuol bene.
Ghe va costantemente unito alle forme del verbo Aver, quando questo verbo non sia usato come ausiliare; così, dicemmo, va unito alla forma pronominale ne, quando è usato in funzione di genitivo (compl. di specificazione). Nell'un caso e nell’altro il ghe dunque è pleonastico, e perciò non va tradotto in italiano: Averghe fame e sè: aver fame e sete. — No ghe ne voi: non ne voglio.
Dovremmo in fine notare che la forma del plurale di seconda persona vu corrisponde al «voi» italiano (usatissimo fra il popolo) quando si parla ad una sola persona alla maniera francese e inglese. Es.: Parlo con vu, galantomo: parlo con voi, galantuomo.
Per i non Veronesi è da segnare la forma particolarissima del verbo: Sonti; ad esempio: Sonti forsi mato?: Son forse matto?, e poscia l’altra: Sonti mi?: Lo so io? Nell’un caso deriva dal verbo «essere»― nell’altro dal verbo «sapere» 1.
Dialetto | Italiano |
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1) El dise sempre busìe, e gnissun ghe crede. (El sogg.; ghe compl. di termine). | 1) Egli dice sempre bugie, e nessuno gli crede. |
2) Me par che i g’abia torto. (Me è uguale: a me, compl. di term.; i soggetto; abia singolare per il plurale). | 2) Mi pare che essi abbiano torto. |
3) El ne contava tante bele rosàrie (el sogg.; ne a noi compl. di termine). | 3) Egli ci raccontava tante belle fole (narrazioni in genere di caratt. popolare). |
4) Se ’l me ciapa, l’è brao (’l sogg.; me compl. ogg.; l’è ha un valore pleonastico ed in ital. si omette). | 4) Se egli mi piglia, (egli) è bravo! |
5) El ne fasea laorar come cani (El = egli, sogg.; ne compl. ogg.). | 5) Egli ci faceva lavorare come cani. |
6) El giudice el i à ciamadi, e lori i à squaià tuto (El = sogg. el ripet. con valore rinforzativo, i compl. ogg. quelli, lori pron. essi, i soggetto ripetuto). | 6) Il giudice li ha chiamati, ed essi hanno spiattellato (rivelato, spiegato) tutto. |
Bádisi che il dialetto, grammaticalmente, non tralascia mai il prenome davanti al verbo. Talora anzi il pronome trovasi ripetuto, ad esempio in questa forma:
Ti te credi a tuto quel che i te conta. | Tu credi a tutto quello che ti raccontano. |
E pare che il dialetto, a differenza dell'italiano, abbia bisogno di sempre più determinare la persona. Così nelle forme del verbo essere: presente: ti te sé tu sei, lu l’è egli è, lori i è essi sono; imperfetto: ti te eri tu eri, lu l'era egli era, lori i era essi erano, e così via. Si osservino certe trasposizioni di tempi:
1) I è stadi bravi i nostri a la batalia de San Martin! | 1) Furon bravi i nostri alla battaglia di San Martino! |
2) Dopo che el m'à parlà (ovvero parlado), m'à parso de averghe falà strada. | 2) Dopo ch’egli mi ebbe parlato, mi parve di avere sbagliato strada. |
Se alla moneta di una nazione fu giustamente paragonato il suo linguaggio, è da dire che le parole, le frasi, i valori grammaticali 2 possano paragonarsi alla moneta più o meno spicciola, che distingue regione da regione, paese da paese, gente di popolo cittadino da gente di borgo, di campagna, di monte.
L'uomo e fatto e parla secondo la terra ove nasce, onde a ragione Torquato Tasso, cantando, afferma che la terra «Simile a sè gli abitator produce».
Nel suo dialetto e nelle sue usanze il popolo ha caratteristiche che niuno può distruggere. Dice il proverbio: Paese che vai, costumi che trovi; il popolo veronese dirà: «Ogni paese g'à la sua usansa».
- Note
- ↑ Uno studio da consultarsi per certi vocaboli e certe regole grammaticali è quello di L. Gaiter, Il dialetto di Verona nel secolo di Dante, pubbl. in Propugnatore, a. VI. parte 1°, 1883.
- ↑ La differenza fra lingua e dialetto consiste, per lo più, nella diversa maniera di pronunciare i vocaboli. L'unione politica della Nazione, con la molteplice agevolezza e necessità di comunicazioni tra le sue provincie, produrrà senza dubbio la prevalenza della lingua sopra i dialetti. Coll'unità politica, l’unità della lingua trionfa.
Anomalia singolare dei dialetti veneti (in generale) è la mancanza di ferme proprie della terza persona plurale dei verbi. Mettono in suo luogo la terza persona singolare col pronome plurale. Per es.: el dise, el diseva, l'à dito; i dise, i diseva, i à dito (egli dice, egli dice, egli ha detto; essi dicono, essi dicevano, essi hanno detto). Il Veronese pronuncia gli infiniti dei verbi sempre tronchi; amàr, sentìr; così nel passato usa sempre l’ausiliare col participio. Non dice amai, amasti ecc. ma ò amà, te è amado ecc. Preferisce la 1° alle altre coniugazioni dei verbi: ascoltàr, non udire: scapàr non fuggire; pronuncia: vèdar, crèdar, piànsar, strènzar; vedere, credere, piangere, stringere. Preferisce l’a all’e; l’e all’i; l’o all’u ed all’uo; amarò, vegnarò; ponto per punto; domo, ton, bon per duomo, tuono, buono. I participii variano in: amà, amado; finì, finido; conossù, conossudo.
I nomi plurali femminili terminano quasi tutti in e: le canzone, le resone, le mane.