Questa poesia veneziana — voce di un popolo giocondo — s’era assai di raro vestita a lutto; nè mai, fino ai giorni nostri, ci aveva dato un componimento elegiaco che potesse competere per valore d’arte con quelli giocosi e satirici. Antonio Lamberti, vissuto tra la seconda metà del secolo XVIII e il primo trentennio del XIX, scrisse un Inno alla Morte, che è una esercitazione scolastica; il suo contemporaneo Pietro Buratti, il più robusto e vario tra i vecchi poeti veneziani, dedicò alla memoria di un suo figliuoletto, consunto da terribile malattia, due canti; ma il primo, dopo avere esordito con un’eloquente apostrofe alla Provvidenza, che il poeta non sa negare nè affermare, si smarrisce in digressioni verbose e retoriche; e il secondo comincia sur un tono così goffamente alcadico, che i lampi susseguenti d’affetto non bastano più a rianimarlo. Diceva il Buratti per giustificarsi: «El vernacolo, spogio del puntelo bernesco o del satirico, dificilmente se tira su col solo aiuto de la poesia, per la grandissima razon che l’altezza de le idee fa i pugni co’ l'umiltà del linguagio». — Riccardo Selvatico pensava diversamente; pensava che la poesia del dolore deve allontanare da sè fin l’ombra della ricerca verbale e che quanto più dimesso si manterrà il suo linguaggio, quanto più i suoi tocchi e le sue immagini saranno tratti dalle consuetudini giornaliere, tanto più il nostro cuore ne resterà preso e commosso.
E all’angoscia materna egli prestava l’umiltà singhiozzante di questa voce: