montesi tradotti e ridotti. Lo rivedo ancora. Larga faccia sbarbata, dal sorriso caustico e dal naso di una aquilinità prominente, egli pareva riprodurre, meno la parrucca e la toga, un ritratto di Alessandro Longhi. Dicitore frettoloso, grande improvvisatore di pistolotti, possedeva però alcuni doni invidiabili: l’amore per la gioventù, la religione goldoniana per quanto non sempre ortodossa, una serenità intrepida nelle traversie della vita, un nativo buon senso che temperava ad ora ad ora la psicologia un po’ illogica e fatua dell’uomo di teatro.
Un giovine, finalmente, venne a lui, con un manoscritto. Era Riccardo Selvatico. Contava poco più di ventun’anni1; apparteneva all’agiata borghesia; era vissuto fino allora nell’intimità domestica e fra gli studî; irrequieto e versatile d’ingegno, delicatissimo d’animo, osservatore penetrante, dialettico inesorabile e discutitore inesauribile. Angelo Moro-Lin divorò il manoscritto, abbracciò il giorno appresso l’autore trepidante e la sera del 27 febbraio 1871 rappresentò La bozeta de l’ogio. Era una svelta successione di scene in cui la strada si ripercoteva nella casa, un gaio episodio della vita popolaresca negli ultimi giorni del risorto carnevale; e gli spettatori che riudivano, dopo il lungo silenzio, le care voci domestiche, applaudirono fragorosamente per più sere di seguito.
Venezia ritrovava una vena smarrita del genio paesano.
- ↑ Riccardo Selvatico era nato a Venezia il 16 aprile 1849.