veva radunare in periodico convegno, sul margine delle lagune, il fiore della produzione estetica contemporanea.
Ma, sopra tutto, egli mirò a vestire di forma aristocratica le aspirazioni popolari. Ateniese d’intelletto, nemico di qualsiasi violenza anche verbale, egli pensava che la dignità dell’espressione è l'indice più persuasivo del rispetto che noi portiamo alle nostre idee. Era convinto che sarebbe stata inutile fatica della storia l'abbattimento dei privilegi del sangue, come inutile sarebbe oggi quella d’infrenare le cupidigie della borsa, per far posto ad una democrazia angusta di cervello e zotica di modi. Tutto serviva a lui — un avvenimento triste o lieto, la morte d’un eminente cittadino, un saluto, un augurio, il varo di una nave, l'inaugurazione di una statua — per proferire qualcuna di quelle nobili parole che rispecchiano la coscienza collettiva quand’è vigile, o la scuotono quand’è assopita. Così anche l’opera di Riccardo Selvatico, sindaco, divenne in certo modo arte e poesia.
Questa poesia operata e vissuta costrinse l’altra a tacere, fuorchè in due occasioni in cui esse s’incontrarono e si porsero fraternamente la mano. Il 1° agosto del 1891, il 22 luglio del 1893, Riccardo Selvatico, intervenuto al banchetto tradizionale che il Comune di Venezia offre ai gondolieri partecipanti alla Regata, vi recitò due liriche, la prima delle quali svelta e vivace ma d’intonazione un po’ comune può essere dimenticata, mentre l’altra rimane indimenticabile per efficacia rappresentativa di pittura e di ritmo.