interiori. È la deliziosa ninna-nanna che or ora vi ricordavo; è il desiderio acceso e trepido che precede le nozze; è il vago rimpianto che le segue; è l’uomo che rifà il vecchio sogno di convertirsi in animale per vivere con più intimo abbandono presso la donna amata e per compiere più liberamente le sue allegre vendette; è l’artista medesimo che sente la propria impotenza dinanzi all’incanto divino d’una notte estiva; è la fine del lavoro quotidiano e l’uscita clamorosa delle operaie; è la mamma della bimba morta che non sa credere alla sua sventura...
Quante volte poeti e pittori non avevano cantato o dipinto la calèra veneziana, col suo misto originale di sguaiataggine e di grazia? Non mai, però, le nostre popolane erano state ritratte nella loro irrompente collettività, quando l’anima, compressa dalle angustie o infrenata dalla disciplina del mestiere, si espande in un gran respiro d’affrancazione, appena varcata la soglia della casa o dell’opificio. Questo fece Riccardo Selvatico. Scoccano le quattro; la fabbrica spalanca le sue porte; le sigaraie, dopo avere per tutto il giorno scelto, mondato, arrotolato la foglia, si sentono libere, libere finalmente sul lastrico, lo invadono a squadre, passano e dileguano come una raffica umana sfrontata e gioiosa...
Bate quatro e za scominsia
Nel silenzio de la strada
Fin alora indormenzada,
A sentirse da lontan