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Pagina:Selvatico - Commedie e Poesie Veneziane, Milano, Treves, 1910.pdf/21

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vedete di continuo queste coppie di sposi e di amanti; o meglio, esse si offrono al vostro sguardo per i loro atteggiamenti di felicità dominatrice. Passeggiano con una specie di ritmica alterezza lungo il Molo; si lasciano cullare dalla gondola nelle notti di plenilunio che gittano intorno strascichi oscillanti di gemme o nelle notti negre animate solo dalle fosforescenze e dal borbottio dell’acqua; si soffermano come infantilmente trasognate nella Piazza fulgida di sole, tra uno stuolo svolazzante di colombi; s’appoggiano in silenzio, la mano chiusa nella mano, alla balaustra del giardino reale, di fronte alla conchiglia palladiana di San Giorgio. Accostateli: l’anima loro trabocca dalla muta carezza dello sguardo, dagli ingenui abbandoni, da qualche stretta repentina, irrefrenata, che si direbbe la conclusione visibile di un ardente colloquio interiore...

E così Riccardo Selvatico esprime popolarescamente l’anima amorosa della sua città:

          No gh'è a sto mondo, no, Çità più bela,
          Venezia mia de ti per far l’amor;
          No gh’è dona, nè tosa, nè putela,
          Che resista al to incanto traditor.
     
          Co un fià de luna e un fià de bavesela
          Ti sa sfantar i scrupoli dal cuor;
          Deventa ogni morosa in ti una stela
          E par che i basi gabia più saor.
     
          Venezia mia ti xe la gran rufiana,
          Che ti ga tuto per far far pecai:
          El mar, le cale sconte, i rii, l’altana,

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