bile dell’autocritica. Appena concepita un'idea, egli vedeva stendersi attorno ad essa la fitta rete delle idee collaterali e su ognuna di queste si soffermava a ragionare così sottilmente da smarrire il senso esatto del loro valore relativo e dei loro rapporti prospettici. Quanto alla forma, egli avrebbe voluto che la parola non si facesse mai scorgere per sè medesima, ma si dissimulasse nel pensiero che si proponeva d’esprimere e gli desse interamente fondo; sicchè la scelta d’una similitudine, d’una associazione di vocaboli, di un epiteto, di un avverbio, gli costava una torturante perplessità. Ma l’autocritica era sopra tutto il suo veleno. Ogni qual volta quella nobile fantasia riusciva a ordire una tela, la malefica intrusa sopraggiungeva e con le dita irrequiete ne tentava così insistentemente i fili, da scomporli e strapparli. E quante di queste tele non vidi scomposte e strappate con una crudeltà che sapeva di suicidio intellettuale! Quante inspirazioni sceniche, sul punto di spiegare le ali, non morirono assiderate nelle carte dello scrittore!
Una di esse riuscì un giorno a spiccare il volo, ma non colle sole sue forze; e fu volo breve e stanco. Riccardo Selvatico aveva ideato un quadro graziosamente comico delle ingenue ignoranze campestri dei veneziani — che doveva intitolarsi Un logheto in campagna — e ne aveva già steso parecchie scene. Giacinto Gallina si unì a lui e da questa collaborazione uscì Pessi fora d’acqua (1882). Qualche dialogo fine ed arguto, qualche trovata, qualche si-