Pagina:Le Rime Veneziane e Il Minuetto.djvu/164

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Ad Arturo Vertunni, pittore.


Io ripenso, o fratello, i tre anni di nostra convivenza in Roma, con desiderio acceso e costante della tua compagnia. Ricordi, o inseparabile amico di ogni giorno e di ogni ora, le nostre chiacchiere allegre, le passeggiate a notte piena per le strade deserte, i bei sogni luminosi, le fantasticherie di gente malata un po' di cervello? Pareva che le vigili stelle occhieggiasser dall'alto que' due solitari amici delle tenebre con pietosa compassione dell'esser loro e della loro ingenuità. Ricordi le nostre gioie e i nostri dolori, i propositi (ahi, quante volte mutati e rinnovati!) di più alacre vita, le lievi querele e le sollecite paci e gli scambievoli mòniti, e l'amore, l'amor nostro fiero e profondo, che doveva durare l'eternità? Il mio è, oramai, ridotto uno scheletrino nel cimitero delle memorie, senza onore di special sepoltura, e senza inscrizioni di rimpianto. In queste rime ch'io ti dedico e dono come a fratello udrai ripercossa l'eco della vita passata in quella nostra cara intimità; e vedrai e riconoscerai, spero, se l'arte non fallì agli intendimenti, e se a risponder non fu sorda la matera, il tuo Attilio nella semplice sua natura e nella sincerità del suo core. Ma per fusione delle nostre anime, per somiglianza de' nostri caratteri, per vicende strane che ci fecero soffrire e gioire delle stesse sofferenze e delle gioie stesse, vedrai e riconoscerai, come in terso specchio, anche l'imagine tua.

Lavora, chè dolce è la fatica ai forti; fatti sempre più degno delle gloriose tradizioni paterne, e riama

il tuo amico e fratello
Attilio.
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