Le Rime Veneziane e Il Minuetto/Prefazione

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Qualità del testo: sto testo el xe conpleto, ma el gà ancora da vegner rileto.
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PREFAZIONE

Le rime contenute in questo volume vennero scritte dal 1884 al 1890. Ristampo qui la 2a edizione delle prime, pubblicata dal Sacchetto di Padova, le seconde, édite dal Drucker di Verona; le terze, messe in luce, insieme con alcune italiane, dal Merlo di Venezia, e il Minuetto uscito pe' tipi del Piccolo di Roma. Il 4° libro si compone delle rime comparse, quasi tutte, nel Fanfulla della Domenica.

Ho cercato emendarne qua e là alcune, altre rifiuterei volentieri come inferiori a' concetti che dell'arte della poesia dialettale mi sono venuto formando, se non credessi utile cosa seguire un poeta, buono o cattivo ch'ei sia, nella strada percorsa, e conoscerlo intero nelle sue imperfezioni e nelle sue men felici inspirazioni. Se qualche progressivo miglioramento verrà no[p. X modifica]tato nell'opera mia, ne sarò soddisfatto; chè io non sono di quelli che trescano e si fan gioco e sollazzo dell'arte, e credono facile ai sorrisi e agli abbandoni la musa alta e severa della poesia. I dilettanti, piovre dell'arte, che non dilettano che sè stessi, annoiando gli altri e rubando il proprio tempo a qualche lucroso mestier materiale per gittar sulla carta parole ch'ei chiamano versi, non potendo agevolmente capire quanto di fatica e di tormento intellettuale costi all'artista la propria opera, troveranno ozioso il desiderio; ma i miei buoni amici lettori vorranno esser certi ch'io rispetto troppo l'arte e la poesia per non cercar ogni mezzo e debole penna de' miei primi imparaticci rimati.

Io cominciai a scrivere versi dialettali molto per tempo: non toccavo, se la memoria non mi falla, gli undici anni, e già mi studiavo di buttar giù parole che rimasser fra loro a fine di riga. Ricordo che mio padre (o padre mio, dopo così dolente ch'io proseguissi in tale stramba fissazione, la colpa fu tutta tua!) mi donava mezza lira ogni poesia, corta o lunga, dialettale o italiana; ed io me la guadagnava ogni giorno, e qualche giorno anche due.

Fra le rime scritte allora mi sovviene [p. XI modifica]di questa (credo che mio padre impietosito dal soggetto e dalle lamentazioni del povero rimatore me la pagasse una lira intera):


    RICHEZZA MOBILE, MISERIA STABILE

    L'aqua in boca me vien quando che vardo
    El sigaro pusà dal tabacher.
    Voria fumarlo, provaria piaçer,
    E son senza la crose de un lombardo.

    Co passo l'ostaria del vecio Nardo,
    Voria bèvar un goto in vostro onor,
    Ma in strada penso co' mio gran dolor,
    Che son senza la crose de un lombardo.

    Volto e rivolto le scarsele, e vardo
    Se per caso ghe fusse l'amor mio...
    Una medagia, una medagia! Oh Dio!...
    La medagia no val gnanca un lombardo.

    De andar coi mii compagni no me azardo,
    Che se per caso i vol tor un sorbeto,
    Mi dovaria, gramasso, andar a leto,
    Mi che no go la crose de un lombardo.

    Misantropo, filosofo, omenon,
    Tuti me ciama senza che li incita,
    Ma se tuti i misantropi me imita,
    In pochi zorni i mor de consunzion.


E ancora, mi torna in mente una tiritera [p. XII modifica]intitolata Inverno la quale si chiudeva alla meno peggio così:


Quando ch'el nono
Sentà al fogher
Fa una gran mostra
Del so saver,
Coi nevodini,
Che, a dirla scieta,
Ascolta e impara
Che la riçeta
Per esser geni
Xe de parlar
Co' quei che gnente
Pol contrariar,
Quando che avanti
De far un passo
Sentì le gambe
Farse de giasso,
Quando che in tera
Se sbrissa, in gondola
Come nel mar
Quasi se dondola.
No abié paura,
Ne fé bordelo
Xe el vecio inverno
Che vien bel belo.

E seguitava di questo trotto fino ai palpiti del giovine anno sorridente nella letizia di primavera:


L'inverno squalido
Va de cariera,
E torna florida
La primavera.

[p. XIII modifica]Brutti versi, non vi pare? E pure, allora consolavano i miei ozi, e bastavano anche i miei desideri e i miei giudizi. In fin de' conti, tornavano, le rime c'erano, non belle e peregrine, in verità, ma c'erano; che cosa dovevo io chiedere di più alla mia musa? Quella robetta mi sembrava poesia, e in questa opinione mi confortava il fatto di vederla stampata in un foglio di allora: Sior Tonin Bonagrazia.

Oh i bei giorni eran quelli! io aspettavo con ansia la domenica mattina per vedere il parto laborioso della mia fantasia ammiccarmi dalle colonne del piccol giornale; e, strana illusion della stampa! trovavo i miei versi più belli e più degni di prima. Quanto dolore se, a caso, mi saltava all'occhio un errore tipografico! Parevami dovesse ciascuno crederlo error del poeta, e mi affrettava a darne notizia agli amici, e a corregger le copie che mi capitavan fra mano. A poco a poco, con l'andar del tempo e con lo spuntare de' primi peli sul viso, cominciarono i superbi fastidi del giovinetto e gli esaltamenti di amore. La Miseria stabile della saccoccia non ispirò più il mio core ricco di affetti, le brume dell'Inverno ed i ghiacci dileguarono e si sciolsero ai raggi dell'amor mio. E cantai ne' versi tisicuzzi tutti fronzoli e bugiole la bella che mi faceva [p. XIV modifica]perder l'ore miseramente in ozi contemplativi; cantai, cantai, cantai...

O legge sull'istruzione obbligatoria, come ti avrei voluto allora in vigore! La donzelletta leggiadra, figlia d'un trattor di campagna, la musa ispiratrice, la bruna quindicenne mia musa, non sapeva nè meno compitare il b-a, ba!!

Mio padre, per non andare in rovina, cessò di pagare le rime al prolifico poeta.... e, vedendo la malattia farsi seria e minacciare di diventar cronica, cominciò a dolersi con me delle mie fisime versaiuole. Da buon commerciante desiderava tirarmi su pe' negozi de' commerci, e non per gli ozi della poesia; ma il mal di Apolli m'era già entrato nell'ossa, e io stetti saldo a non volerne sapere. Un mio fratello, che m'avea preceduto nell'arringo poetico, e godeva in famiglia nominanza di magnifico rimatore, con tutto che scrivesse di brutti versi, dopo aver dato in luce un cotal suo libretto intitolato, con giusto giudicio, Vasi a Samo, aveva, con romano coraggio, dato un addio alle muse, rinunziando ad Apollo per Mercurio; fatto notevole che mio padre soleva pormi sotto gli occhi quale ammonimento ed esempio. Io seguitati. Non ch'io mi sentissi allora più forte di mio fratello, o più chiamato al mestier del poeta, ma i commerci [p. XV modifica]non mi andavano a genio, non ne capivo un bel nulla, e l'animo mio che tutto si consolava leggendo un canto di Dante o un'ode del Petrarca, restava muto e freddo davanti alle cifre. Io seguitai; e cominciai a studiare, a studiare, a studiare i poeti maggiori, e non incomodai più la musa per qualche tempo, e mandai a memoria con passione febbrile le cose loro più belle. Ridatomi a scrivere, nel 1884 i tipografi Usiglio e Diena si offerirono di pubblicare un volumetto di versi miei, e diedi loro le Rime Veneziane, cinquantadue piccole poesie scritte nella forma popolare della Vilota, somigliante al Rispetto toscano. Il mio amico Pompeo Molmenti le presentò ai lettori con poche e buone parole, il pittor Mainella ne illustrò alcune, e il tutto insieme non dispiacque, specie alle signore cui molceva l'orecchio la musica del dolce vernacolo lagunare, ed ebbe elogi dai fogli meglio in reputazione di serietà, sì che in breve tempo venne esaurita la prima edizione. Acquistò il diritto a pubblicar la seconda, emendata e accresciuta, il Sacchetto di Padova, e le accoglienze oneste e liete, per dirla alla dantesca, m'incuorarono a scriverne ancora, a tener viva ancora la tradizione della poesia veneziana. La quale si presterebbe a lungo discorso se i limiti d'una prefazione [p. XVI modifica]lo concedessero, e se non fosse già nota l'istoria sua per opera di alcuni egregi, che ne fecero studi lunghi e speciali.

Dal Lamento del Crociato, del secolo XIII, primo monumento letterario del vernacolo nostro, alle rime del Buratti e del Nalin, la poesia veneziana ebbe momenti di fioritura vigorosa e gentile quale pochi altri dialetti di nostra razza.

Le rime, ad esempio, del Calmo e dell'arcivescovo di Corfù, Maffio Venier, patrizio e poeta degnissimo, nel '500; quelle del Lamberti, del Gritti, del Mazzolà, del Pastò, nel secolo scorso; quelle del Buratti, del Coletti, del Pagello, nella prima metà del nostro, attestano e provano quanta ricchezza di eloquio, quanta efficacia di motti, quanta arguzia sottile, e festività e malinconia e dolcezza e passione sia in questo dialetto delle lagune, il quale può, agile e brioso, servire alle canzonette del Lamberti e ai ditirambi del Pastò, e, forte e solenne, alle orazioni del Sagredo e del Foscarini.

Nell'arte della poesia il dialetto è fonte e scuola di verità. La esatta e immediata osservazione del vero trova, meglio agevolmente che in lingua, la turale e precisa e più adatta espressione, onde più vivo e sincero il colorito, più efficace la rappresentazione, maggior chiarezza nella forma [p. XVII modifica]propria al pensiero poetico. Aggiungi, che lo scrittor dialettale non può mai allontanarsi da quella popolare semplicità, ch'è nella essenza stessa d'ogni vernacolo; sì che, efficacia, chiarezza, semplicità, in prosa e in versi, cooperano alla migliore interpretazione e riproduzione del vero, fine supremo dell'arte.

Ma è propria de' dialetti, sì tenacemente custoditi dal popolo, la volgarità, nel significato spregiativo della parola. Intendo per volgarità, quella sboccata forma di linguaggio, quel turpiloquio non bello anche se imaginoso, quel dizionario di parole e motti inverecondi, che l'ignoranza e la nessuna abitudine del viver fra gente a modo, mantengono in fiore in certi ritrovi plebei.

L'artista, il quale voglia rappresentare il popolo minuto, dee, naturalmente, studiarlo nelle costumanze sue; ma ritrarlo com'è, non vuol dire ripetere le parole maloneste e le bestemmie e gl'ignobili motti. Bisogna farlo pensare come pensa e parlare come veramente parla; bisogna coglierne l'anima, senza lasciarsi adescare da quelle intemperanze di forma, le quali rese con arte e misura, possono colorire un suo momento caratteristico, non mai darci intera e sincera la sua fisonomia.

Dico questo, perchè qualche ignorante [p. XVIII modifica]scrittor dialettale, andando anche più in là, crede a dirittura che lo scrivere in vernacolo significhi metter giù parolaccie da trivio, o, imitando il Baffo di non felice memoria, trattar soggetti sì bassi e sì turpi, che gli eguali, ov'ei potesse, sceglierebbe con suo molto compiacimento il porco in brago. L'arte della poesia dialettale è arte difficile, a punto per quel delicato senso della misura, e quello spirito di osservazione, e quella pittura efficace ed esatta della realtà, che il dialetto domanda. Credersi atto a maneggiare il dialetto, solo perchè se'l conosce da' primi balbettamenti della puerizia, senza studiarlo, e studiare la sua letteratura, e l'indole e lo spirito suo, e il popolo sua Vestale, è semplicemente orgogliosa stupidità.

Oggi siamo pochi a scriverlo, e meno a farlo oggetto di studio. Ride egli festoso, e piange con malinconia di forme e di suoni, nelle commedie di Giacinto Gallina e di Riccardo Selvatico; ma la poesia nostra, la poesia dolce, serena, mite come un'alba di maggio in laguna, triste e lagrimosa, come un tramonto d'autunno dietro l'isoletta di San Michele, ove dormono i morti, non ha cultori degni come gli antichi.

Il Selvatico dettò in passato poche rime piene di colorito e vive d'arte; Arrigo Boito, in qualche saggio ch'ei diede, pubblicato [p. XIX modifica]nell'Illustrazione italiana e intercalato da Giuseppe Giacosa in un suo discorso, parmi, sulle Marionette (la Canzone della polenta) mostrò quale eccellente poeta dialettale potrebbe essere; degli altri non mette conto parlare.

Come si vede la lista è breve, e la letteratura è in sensibile scadimento. Non parrà, dunque, io spero, cosa inutile o biasimevole, a chi abbia in cuore la poesia di questo vernacolo, melodioso sì come musica favellata, ch'io seguiti a scrivere e a pubblicare.

Con tale speranza licenzio questo volume, indirizzandolo più specialmente a tutte le gentile signore, che, udendomi, ne' discorsi tenuti su e giù per l'Italia in molte città, ripetere alcune di queste rime, le accolsero sempre e da per tutto così lietamente da compensarmi con generosa larghezza d'ogni fatica.

Se leggendole ora nella nitida edizione di Casa Treves ne provassero diversa e opposta impressione, non cangerà per questo la mia sul lor conto; e sentirò sempre in core egual desiderio di rivedere, quando che sia, le belle e cortesi mie ascoltatrici

Milano, gennaio 1892.
Attilio Sarfatti.
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