Canti popolari vicentini/Canti popolari vicentini

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Cristoforo PasqualigoCanti popolari vicentini, raccolti e illustrati da Cristoforo Pasqualigo, Napoli, 1866

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CANTI POPOLARI VICENTINI


Per coloro che tengono dietro al moto presente degli studi in Italia è di lieto augurio il vedere quest'ansia, questa operosità nel ricostruire il grande edificio storico della Patria. La storia fu detta essere la maestra della vita e il pane dei popoli forti; e in effetto l'investigare il passato fu sempre di quelli che hanno la coscienza della propria virtù e il sentimento dell'avvenire, al quale non si potrà mai, senza il soccorso della storia, avviarsi con coraggio e con sicura fidanza.

Ma se anticamente per dettare la storia era stimato sufficiente tener conto degli avvenimenti più solenni e registrare solo le gesta dei pochi che soprastavano, oggidì i tempi mutati impongono che si debba tenere diverso metodo e modo se non si voglia fare opera incompiuta e pressochè vana. Nelle storie antiche il racconto si aggira attorno ad un sol uomo, ad un fatto che è come centro nel quale vanno a confondersi tutte le fila dei fatti secondari. Invano ivi cercherete la descrizione della vita popolare, la storia della gran massa dei governati, senza dei quali non esisterebbero governi e che perciò appunto è, come altri disse, la prima, la vera, la più ampia materia storica. Quindi è che vediamo questo affaccendarsi per illustrare le leggi, i costumi, i dialetti, le tradizioni, i proverbi ed i canti dei popoli Italiani, che di storia ebber finora, si può dire, poco più che uno scheltro.

E restringendoci a parlare dei canti e della loro importanza, non possiamo a meno di ripetere le parole che Antonio Canini premetteva alla pubblicazione [p. 6 modifica]di quei bellissimi della Grecia nella Rivista Veneta, giornale che vedemmo mancare prima che avesse potuto darci intera quella preziosa raccolta. Egli diceva: «Chi potesse fare una collezione completa e comparata delle poesie popolari in tutte le lingue conosciute farebbe, a nostra opinione, un libro utile agli studiosi e meraviglioso al pari, e forse più, dei capolavori classici, un libro che abbracciando con potente unità la preghiera e la bestemmia, il riso ed il pianto, l'amore e la morte, sarebbe ottimo complemento e supplemento delle storie dell'umanità in tutte le condizioni politiche, sotto tutti i climi ed in tutti i tempi; un libro il quale meglio che altro mai rappresenterebbe le passioni, le gioje, gli affanni, il cuore umano; insomma la vita.»

Se l'Italia fu l'ultima che desse mano a raccogliere i canti del suo popolo, fu però anche quella che in breve tempo ne ha dato di essi tal copia da superare ogni altra nazione, nè poteva essere altrimenti essendo essa la terra del canto per eccellenza. Tommaseo, Tigri, Visconti, Marcoaldi, Vigo, Nigra, Dal Medico, Alexandri, ed altri ci diedero assai dei canti toscani, romani, còrsi, siciliani, liguri, umbri, piemontesi, lombardi, veneziani, e rumeni, che anche questi ultimi appartengono all'Italia.

Queste raccolte assunsero maggiore importanza e destarono più vivo interesse dal loro moltiplicarsi, ed era ben naturale. Non avvezze le menti a cosiffatti studi, non vi si pose da principio più che tanto attenzione, e vennero accolti come ghiribizzi degli eruditi, o trastulli dei beati ozii dei letterati. Ma poscia, conosciuti gli stupendi risultati che se ne ottennero presso le più colte nazioni, specialmente in Germania, ne nacque anche da noi uno straordinario fervore. E se l'opera parve in ogni dove utilissima, riuscì, come avvertiva Emiliani-Giudici, oltremodo benefica in Italia che vanta sopra tutte le altre [p. 7 modifica]nazioni una coltura più antica e varia, e tradizioni singolarissime antiche e moderne e più remote origini di civiltà. Dal confronto di questi canti si conobbe il vario atteggiarsi dell'indole della nazione secondo i diversi volghi che la compongono, e lo speciale loro carattere, insieme alla universale consonanza di pensieri, di affetti e di aspirazioni, perchè da tutti i canti Italiani si sente che è uno il popolo che li ha fatti. Oh è pur bello questo sentirci tutti fratelli!

Ma non avessero le canzoni popolari altro interesse, basterebbe a renderle accette la loro bellezza. In esse come in fido speglio, è riflesso tutto lo splendore dell'Italo cielo e le meraviglie del bel paese; ora gaie come le nostre aurore, or malinconiche come i nostri tramonti, sempre lussureggianti come le nostre messi, hanno la dolcezza del clima, l'olezzo dei fiori d'Italia. Sono fiori esse medesime, ma d'una freschezza eterna che non paventa nè mano stuggitrice, nè rigore di verno. La poesia del popolo sgorga naturale, schietta, spontanea dal core commosso; ed è certo che se i nostri poeti avessero a studiare questa poesia, imparerebbero a smettere assai di quel fare artifizioso, che non solo non aggiunge pregio ai loro versi, ma fa che non sieno accessibili alle menti volgari. E sarebbe errore il credere che per rendere tali faccia mestieri cadere nel basso e nel triviale, o bamboleggiare col popolo che non hanno mai inteso; chè anzi esso (e lo mostrano i suoi canti) ha vigore e potenza d'immaginazione, e si compiace di quanto può esaltarlo e trasportarlo oltre i confini del vero, ed ha più facilmente l'intuizione delle grandi cose, ed è più familiare coi grandi ingegni che comunemente non si supponga da' suoi stessi encomiatori.

Noi qui daremo per ora un saggio dei canti vicentini, quali ci avvenne di raccoglierli nella parte meridionale della provincia. Ben diversa è la fatica del raccogliere i proverbi, da quella del raccogliere [p. 8 modifica]i canti 1. Quelli sono retaggio comune ad ogni ceto, ad ogni condizione di persone, s'odono in bocca di tutti e si offrono in certo modo da sè, mentre i canti appartengono quasi esclusivamente alle donne, e fra queste alle campagnuole in particolare. Quindi è che a grave stento si giunge a metterne assieme alcuni, e fa veramente meraviglia come abbiano potuto i raccoglitori sopra ricordati darne sì copiose collezioni. È un senso delicato di pudore, una ritrosia vereconda che vieta alle nostre forosette di soddisfare alla inchiesta, che odono con istrano stupore, di dettarli i versi delle loro canzoni o (vilòte o stornolè) nelle quali sembra che si racchiuda un arcano che non dev'essere confidato che all'aria. Ed invero la parola che ritorna ad ogni strofa è Amore. Amore e null'altro, porge l'ispirazione del canto che è il compagno alleviatore delle loro fatiche, l'obblio dolce dei mali. E il canto è parte integrante della bellezza di questa poesia. Chi ha uditi que' cori di voci limpide e argentine delle nostre villanelle, quando in frotte tornan dai campi in sulle sere d'estate o del mesto autunno e non si sentì commuover l'anima a quelle liete melodie che si spandono d'ogni intorno, e che i monti, quasi anch'essi inebriati, ripetono poi lungamente? Ed è bello il sentire come la musica s'atteggi mirabilmente a seconda del concetto lieto o triste, gentile o forte, in guisa che s'odon talvolta le note dell'allegro inno che desta entusiasmo, tal altra dell'elegia che fa piangere, o son quelle impetuose di una marcia guerresca, o rotte o convulse come il susurro d'un temporale. Ma gran parte di queste stesse canzoni, levate al libero aere dei campi, divise dalla musica animatrice e ridotte su un foglio sono quasi fiori tolti al natìo stelo, che perdono il profumo [p. 9 modifica]e appassiscono. Poche son quelle che abbiano in sè tanta bellezza da sottrarsi al tristo destino.

Queste canzoni del nostro contado sono curiose per la loro veste, che sembra scostarsi alquanto dal dialetto per farsi più eletta avvicinandosi a quella delle toscane: somigliano così alle campagnuole che ne' dì festivi si mettono in gala pur conservando intera la fisonomia loro propria. In esse s'oncontrano molti voci che non appartengono per niente affatto al dialetto nè della città nè dei campi; il che indurrebbe a credere ch'esse ci sien state portate dalla Toscana, come credette l'Alverà, senza però spiegare nè come, nè quando ci sien di là pervenute. Su questo argomento, che merita di essere trattato a parte, noi torneremo quandochessia.

Nelle nostre, come in quello d'altri volghi Italiani, rarissime sono le allusioni a fatti storici: reca certa meraviglia il vedere come le varie vicende delle quali questa terra fu spettatrice, anche le meno lontane e più strepitose non vi abbiano alcuna ricordanza; e se per avventura la si trova in qualcuna, non si sa bene decifrarne il senso, tanto sono oscure. Diversa in ciò l'Italia dalla Grecia le cui canzoni spirano un ardente amore della terra nativa. È in altre canzoni, dal nostro volgo chiamate storie, e che non sono punto da confondersi colla fiabe prosastiche, che si accenna a fatti spaventosi e truci di cavalieri erranti, di castelle incantati, e che so io. Tali sono quelle della Donna Lombarda (della quale noi possediamo due varianti, ambedue più complete di quella pubblicata dal cav. Costantino Nigra nella Rivista Contemporanea) e quelle di Mampresa, e della Bella francese che le nostre donne sanno a memoria. Queste storie fanno meditare e rabbrividire, sì cupe e luttuose esse sono ed avvolte in profondo mistero, fors'anco perchè non si conservano omai più che lacere e a brani: sentivisi il medio evo, e forse non sono che reliquie di antichissimi canti dei trovatori e dei menestrelli.

Cristoforo Pasqualigo.



Note
  1. A tutti dovrebbe esser nota la bella raccolta di Proverbi veneti pubblicata in tre volumi dal Pasqualigo. (Nota degli Editori Napoletani).
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